La mafia li temeva per questo: perché capaci di dimostrare che non era imbattibile e che lo Stato era in grado di sconfiggerla attraverso la forza del diritto.
Onorare oggi la memoria di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino vuol dire rinnovare quell’impegno, riproponendone il coraggio e la determinazione. L’impegno contro la criminalità non consente pause né distrazioni.
Giovanni Falcone diceva che «l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza».
Agiva non in spregio del pericolo – come poc’anzi ha detto Maria Falcone – o alla ricerca di ostentate forme di eroismo bensì nella consapevolezza che l’unico percorso possibile fosse quello che offre il tenace perseguimento della legalità, attraverso cui si realizza il riscatto morale della società civile.
La fermezza del suo operato nasceva dalla radicata convinzione che non vi fossero alternative al rispetto della legge, a qualunque costo, anche a quello della vita. Con la consapevolezza che in gioco fosse la dignità dei compiti rivestiti, delle funzioni attribuite e la propria personale dignità.
Coltivava il coraggio contro la viltà, frutto della paura e della fragilità di fronte all’arroganza della mafia. Falcone non si abbandonò mai alla rassegnazione o all’indifferenza ma si fece guidare senza timore dalla “visione” che la sua Sicilia e l’intero nostro Paese si sarebbero liberati dalla proterva presenza della mafia.
Questa “visione” gli conferiva la determinazione per perseguire con decisione le forme subdole e spietate attraverso le quali si manifesta l’illegalità mafiosa.
Falcone era un grande magistrato e un uomo con un forte senso delle istituzioni. Non ebbe mai la tentazione di distinguere le due identità perché aveva ben chiaro che la funzione del magistrato rappresenta una delle maggiori espressioni della nostra democrazia e, in qualunque ruolo, ha sempre inteso contribuire, con competenza e serietà, all’affermazione dello Stato di diritto.
La portata della sua eredità è resa evidente anche dalle modalità della celebrazione di oggi, attraverso la quale viene rinnovato l’impegno contro la mafia.
Poco meno di tre settimane fa, qui a Palermo, presso l’aula-bunker, ha avuto luogo la sessione conclusiva della Conferenza dei Procuratori europei, dedicata alla commemorazione di Falcone. È stato un omaggio di alto significato perché fu il primo ad intuire e a credere nel coordinamento investigativo sia nazionale sia internazionale, quale strumento per far emergere i traffici illeciti che sostenevano economicamente le mafie.
Insieme a Paolo Borsellino avviarono un metodo nuovo d’indagine, fondato sulla condivisione delle informazioni, sul lavoro di gruppo, sulla specializzazione dei ruoli; questo consentì di raggiungere risultati giudiziari inediti, ancorati ad attività istruttorie che poggiavano su una piena solidità probatoria.
Le visioni d’avanguardia, lucidamente “profetiche”, di Falcone non furono sempre comprese; anzi in taluni casi vennero osteggiate anche da atteggiamenti diffusi nella stessa magistratura, che col tempo, superando errori, ha saputo farne patrimonio comune e valorizzarle.
Anche l’ordinamento giudiziario è stato modificato per attribuire un maggior rilievo alle obiettive qualità professionali del magistrato rispetto al criterio della mera anzianità, non idoneo a rispondere alle esigenze dell’Ordine giudiziario.
Le esperienze innovative di quegli anni si sono tradotte, all’indomani dei drammatici attentati, in leggi che hanno fatto assumere alla lotta contro la mafia un livello di incisività ed efficacia mai raggiunto fino ad allora.
Con la determinazione di fare giustizia, facendo prevalere il diritto, ripristinandolo. Per consentire alle persone pienezza di libertà e maggiori opportunità di futuro contro la presenza delle mafie che ne ostacola e talvolta ne impedisce l’effettiva libertà.
Da queste drammatiche esperienze si dovrebbe trarre un importante insegnamento per il futuro: evitare di adottare le misure necessarie soltanto quando si presentano condizioni di emergenza.
È compito delle Istituzioni – di tutte le Istituzioni – prevedere e agire per tempo, senza dover attendere il verificarsi di eventi drammatici per essere costretti a intervenire.
È questa consapevolezza che dovrebbe guidare costantemente l’azione delle Istituzioni per rendere onore alla memoria dei servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la tutela dei valori su cui si fonda la nostra Repubblica.
Con la stessa consapevolezza stiamo affrontando una stagione difficile, dolorosa, segnata prima dalla pandemia e poi dalla guerra nel cuore d’Europa, che sta riproponendo quegli stessi orrori di cui l’Italia conserva ancora il ricordo e che mai avremmo immaginato che si ripresentassero nel nostro Continente.
Ancora una volta sono in gioco valori fondanti della nostra convivenza.
La violenza della prevaricazione pretende, nella nostra Europa, di sostituirsi alla forza del diritto.
Con tragiche sofferenze per le popolazioni coinvolte e per quelle che, da remoto, patiranno le conseguenze del conflitto. Con grave pregiudizio per il sistema delle relazioni internazionali e per le prospettive di sviluppo delle condizioni dell’umanità.
Il ripristino degli ordinamenti internazionali, anche in questo caso, è fare giustizia. Porre cioè la vita e la dignità delle persone al centro dell’azione della comunità internazionale.
Raccogliere il testimone della “visione” di Giovanni Falcone significa affrontare con la stessa lucidità le prove dell’oggi, perché a prevalere sia – ovunque, in ogni dimensione – la causa della giustizia; al servizio della libertà e della democrazia.