Palermo, sette misure cautelari per il reato di associazione di stampo mafioso

Arrestato il boss Matteo Messina Denaro: finita una latitanza durata 30 anni. Era in una clinica privata a Palermo: è stato operato due volte per tumore - Gazzetta di Parma

 

Sette misure cautelari nel mandamento mafioso di Pigliarelli per i reati di associazione di tipo mafioso ed estorsioni.
Palermo, Riesi (CL) e Rimini

Alle prime ore dell’alba di oggi, nelle città di Palermo, Riesi (CL) e Rimini, i militari del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Palermo hanno dato esecuzione a 7 provvedimenti cautelari (5 in carcere e 2 degli arresti domiciliari), emessi dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, per i reati di associazione di tipo mafioso ed estorsioni, consumate e tentate, con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività mafiosa e di essersi avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
L’operazione si incardina in una più ampia manovra investigativa, condotta all’unisono dalle articolazioni territoriali e speciali dell’Arma dei Carabinieri sotto l’egida della Procura della Repubblica di Palermo, tesa a disarticolare cosa nostra nel suo complesso – colpendone tanto l’assetto militare quanto i cospicui patrimoni illeciti – nell’intento di neutralizzarne l’impatto sul tessuto socio-economico nonché di scardinare quella rete di omertà e connivenza grazie alla quale, ancora oggi, l’associazione mafiosa fornisce supporto alla latitanza di suoi esponenti di spicco.

L’attività odierna, in particolare, costituisce l’esito di un articolato impegno in direzione del mandamento mafioso palermitano di Pagliarelli, che ha consentito di acquisire un grave quadro indiziario in ordine all’appartenenza a cosa nostra dei membri della famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, alcuni dei quali, posti in posizione di vertice, già condannati in passato in via definitiva per il reato associativo mentre altri, considerati uomini d’onore riservati, rimasti ad oggi immuni da attenzioni investigative a causa delle cautele adottate nei loro confronti dal sodalizio.
Grazie all’importante dispositivo di contrasto di cui si è dotato il Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, nonché al ricorso sistematico alle più sofisticate tecnologie di captazione, è stato possibile superare le continue accortezze poste in essere dagli indagati al fine di sottrarsi alle investigazioni, arrivando ad ottenere acquisizioni di elevatissimo pregio ed assoluta genuinità che hanno confermato, ancora una volta, la piena operatività dell’associazione nel suo complesso, nonché il costante richiamo della stessa alle più arcaiche regole mafiose.
L’indagine, condotta sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, ha consentito di acquisire un grave quadro indiziario, sostanzialmente accolto nella suindicata ordinanza cautelare e che dovrà trovare in seguito conferma nel corso dell’iter processuale, in ordine ai gravi reati ipotizzati in capo agli indagati. In sintesi, le investigazioni hanno permesso di:
– smantellare la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, inquadrata nel mandamento palermitano di Pagliarelli, nonché di confermarne, ancora una volta, le storiche figure di vertice, già in passato protagoniste di episodi rilevantissimi per la vita dell’associazione mafiosa, quali, ad esempio, la gestione operativa della trasferta in Francia del capomafia deceduto Bernardo PROVENZANO per sottoporsi a cure mediche o la tenuta dei contatti con l’allora capomafia trapanese latitante Matteo MESSINA DENARO;
– svelare l’esistenza, in seno alla predetta famiglia mafiosa, di uomini d’onore riservati rimasti ad oggi del tutto estranei alle cronache giudiziarie, i quali, pur dimostrando una piena adesione al codice mafioso universalmente riconosciuto da cosa nostra, godrebbero di una speciale tutela e verrebbero chiamati in causa soltanto in momenti di particolare criticità dell’associazione;
– intercettare completamente, mediante il ricorso a complessi servizi di pedinamento e a certosine attività tecniche di intercettazione, una riunione della famiglia mafiosa di Palermo – Rocca Mezzomonreale al completo, tenutasi per estrema prudenza in una casa nelle campagne della provincia di Caltanissetta; in quel contesto si è registrato il costante richiamo degli indagati al rispetto di regole e dei principi mafiosi più arcaici che – compendiati in un vero e proprio “statuto” scritto dai “padri costituenti” – sono considerati, ancora oggi, il baluardo dell’esistenza stessa di cosa nostra. Nell’ambito della conversazione captata, definita dallo stesso G.I.P. “di estrema rarità nell’esperienza giudiziaria”, si è più volte fatto esplicito richiamo all’esistenza di citato “codice mafioso scritto”, custodito gelosamente da decenni e che regola, ancora oggi, la vita di cosa nostra palermitana;
– scongiurare l’attuazione di un proposito omicidiario, una vera e propria sentenza di morte, emessa nel contesto della predetta riunione di mafia quale suggello della ritrovata armonia tra i membri della famiglia mafiosa e, in seguito, riattualizzata nel corso delle successive captazioni tecniche, nei confronti di un architetto ritenuto responsabile di una serie di mancanze nello svolgimento della propria opera professionale;
– ricostruire il compimento di diversi episodi estorsivi – posti in essere al fine di alimentare le casse dell’associazione mediante la richiesta del cd. pizzo o l’imposizione di ditte riconducibili al sodalizio mafioso – uno dei quali caratterizzato dal ricorso ad una metodologia particolarmente inquietante quale l’apposizione, sul cancello di una privata abitazione, di una bambola recante un proiettile conficcato nella fronte. 
Comunicazione finale : “È doveroso rilevare che gli odierni destinatari della misura restrittiva sono, allo stato, solamente indiziati di delitto, seppur gravemente, e che la loro posizione verrà vagliata dall’Autorità Giudiziaria nel corso dell’intero iter processuale e definita solo a seguito dell’eventuale emissione di una sentenza di condanna passata in giudicato, in ossequio al principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza.

 

 

Catania,corruzione e peculato , dipendenti Interporti denunciano, e la Procura indaga l’assessore regionale Falcone, l’ex vicepresidente Armao e arrestato l’ex deputato D’Asero

 

 

 

L’assessore regionale all’Economia, in qualità di ex assessore alle infrastrutture, Marco Falcone, l’ex vicepresidente del governo siciliano Gaetano Armao sono indagati dalla Procura di Catania in un’inchiesta sulla Società degli Interporti siciliani Spa, azienda a totale partecipazione pubblica.

Nell’ambito della stessa indagine i carabinieri hanno arrestato e posto ai domiciliari l’ex deputato regionale Nino D’Asero, di Biancavilla, di 71 anni, l’imprenditore Luigi Cozza, catanese di 70 anni, l’amministratore unico della società, Rosario Torrisi Rigano, catanese di 69 anni e una dipendente dell’azienda, Cristina Sangiorgi, catanese di 52 anni. Tra i reati ipotizzati, a vario titolo, peculato e corruzione. Le misure sono state firmate dal gip del Tribunale di Catania. I quattro arrestati sono accusati a vario titolo di induzione indebita a dare o promettere utilità, peculato, corruzione per un atto contrario ai propri doveri d’ufficio e contraffazione e uso di pubblici sigilli.

L’indagine ha preso il via dopo un esposto, redatto da diversi dipendenti con funzioni apicali della “Società degli Interporti Siciliani S.p.a.”, circa le false attestazioni e le dichiarazioni prodotte da una dipendente, Cristina Sangiorgi, finita ai domiciliari, in merito al possesso di un titolo di laurea.

Le indagini hanno messo in luce le interferenze illecite che avrebbe esercitato l’ex deputato Nino D’Asero, su Rosario Torrisi Rigano, amministratore Unico della Società, attraverso alcuni politici regionali, finalizzate prima alla revoca del licenziamento della Sangiorgi e poi a garantirle una posizione lavorativa alla stessa gradita nell’ambito dell’azienda e, infine, ad omettere l’avvio di doverose procedure disciplinari dopo il rifiuto di svolgere gli incarichi affidatile, così come per il rifiuto della donna di lavorare in smart-working durante la prima fase della pandemia da Covid 19.

Secondo gli investigatori  D’Asero si è rivolto a Marco Falcone, attuale assessore regionale all’Economia e all’epoca dei fatti assessore regionale delle infrastrutture e della mobilità a Gaetano Armao, ex assessore regionale all’Economia e vicepresidente della Regione, Giuseppe Li Volti, ex assistente parlamentare e coordinatore della segreteria particolare di Marco Falcone, i quali avrebbero esercitato pressioni su Torrisi Rigano per far revocare il licenziamento della dipendente.

Si è pure scoperto un accordo corruttivo che sarebbe intercorso tra Torrisi Rigano e Luigi Cozza, titolare della “LCT”, società operante nel settore dei trasporti titolare dell’affidamento in concessione della gestione funzionale, operativa ed economica oltreché della manutenzione ordinaria per nove anni del Polo Logistico dell’Interporto di Catania.

Torrisi Rigano avrebbe concesso l’area in questione alla “LCT S.p.a.” in uso gratuito per svariati mesi prima che venisse formalizzato il contratto, avvisando Cozza e altri manager e dipendenti della società dei controlli che la medesima avrebbe potuto subire da parte dell’Ispettorato del Lavoro e dei Vigili del Fuoco e della necessità di ottenere le varie certificazioni essenziali per poter occupare gli spazi e i locali del Polo Logistico e stipulare il contratto di concessione. Torrisi Rigano, avrebbe omesso o comunque ritardato l’invio di diffide ufficiali alla “LCT S.p.a.” concernenti la liberazione e sgombero o la regolarizzazione della documentazione prima della stipula del contratto di concessione, e avrebbe consentito alla predetta società di concludere un contratto con una terza società in violazione della concessione stessa. In cambio Torrisi Rigano avrebbe ottenuto da Cozza l’assunzione della propria nuora nella LCT, e accettato la promessa di ulteriori utilità.

 

 

 

PER CHI SUONA LA CAMPANA: FINE DELLA LATITANZA RECORD DI MATTEO MESSINA DENARO,SUPERCAPO DELLA MAFIA

Cappellino bianco di lana, occhiali scuri, un giubbotto marrone con pellicciotto bianco, Matteo Messina Denaro era in day hospital alla clinica Maddalena di Palermo quando è stato arrestato. Il boss mafioso, latitante da 30 anni, non ha opposto resistenza al momento della cattura

 

alternate text

 

Messina Denaro era in clinica in day hospital per sottoporsi a terapie, cure contro il cancro. Si scopre che era malato dal 2020.. Il boss mafioso, non ha opposto resistenza al momento della cattura. Giunto in clinica alle 8, si era presentato sotto falso nome ma di fronte ai carabinieri ha subito ammesso la sua vera identità: “Sono Matteo Messina Denaro”

Oltre 100 gli uomini dei carabinieri del Ros che hanno partecipato alla cattura del boss mafioso, insieme al quale è stato arrestato anche il suo autista, Giovanni Luppino.

alternate text

Operazione “Condor”- 10 misure cautelari per associazione di tipo mafioso, stupefacenti ed estorsione.

Carabinieri, via al concorso per 4mila posti - Il Capoluogo

Archivi- Sud Libertà

 Agrigento 
All’alba di oggi i Carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento e del R.O.S., con il supporto dei militari dei Comandi Provinciali di Palermo, Trapani, Enna e Caltanissetta, del Nucleo Carabinieri Cinofili e dello Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori, hanno notificato una ordinanza di custodia cautelare, emessa dal GIP del Tribunale di Palermo su richiesta della locale D.D.A., a carico di 10 soggetti (5 dei quali destinatari della custodia cautelare in carcere, 4 degli arresti domiciliari ed 1 dell’obbligo di dimora) gravemente indiziati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Eseguite 23 perquisizioni personali e locali (di cui 3 in carcere) nei confronti dei destinatari dei suddetti provvedimenti e di altri soggetti indagati, a vario titolo, nello stesso procedimento penale. L’intervento repressivo scaturisce dai convergenti esiti dell’indagine denominata “Condor”, condotta dai militari del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Agrigento, e da quella denominata “Xidy” condotta dal R.O.S. e che già nel febbraio 2021 aveva registrato una prima fase esecutiva.
Le indagini, coordinate dalla D.D.A. di Palermo hanno consentito di acquisire un grave compendio indiziario relativo: – agli assetti mafiosi nel territorio di Favara (AG) ed in quello di Palma di Montechiaro (AG), quest’ultimo caratterizzato – come accertato da sentenze definitive – dalla convivenza della articolazione territoriale di cosa nostra e di formazioni criminali denominate paracchi sul modello della stidda. In tale contesto sono stati raccolti indizi relativi: • al tentativo di uno degli indagati di espandere la propria influenza al di là del territorio palmese, e segnatamente a Favara ed al Villaggio Mosè di Agrigento; • al ruolo di “garante” esercitato dal vertice della famiglia di Palma di Montechiaro (AG) a favore di un esponente della stidda, al cospetto dell’allora reggente del mandamento di Canicattì; – all’ipotizzato controllo delle attività economiche: • nel territorio di Palma di Montechiaro (AG), con specifico riferimento al settore degli apparecchi da gioco e delle mediazioni per la vendita dell’uva (c.d. sensalie); • nel territorio di Favara (AG) mediante l’imposizione delle cosiddette “messe a posto” ad imprenditori operanti nel territorio favarese e danneggiamenti a mezzo incendio; – all’ipotizzata operatività di una parallela struttura associativa con base a Palma di Montechiaro (AG) e diretta da soggetti indiziati di appartenere alla stidda, che gestiva il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti. In merito a quest’ultima attività delittuosa, le attività investigative hanno permesso di raccogliere gravi indizi in ordine all’avvenuta commissione di diversi episodi di spaccio. Con riferimento, poi, ai reati fine contestati ad alcuni degli indagati, sono stati acquisiti e giudicati dal GIP gravi indizi in ordine: – all’interferenza esercitata da cosa nostra sul lucroso settore economico delle transazioni per la vendita di uva e la progressiva ingerenza in detto settore della stidda. In tale ambito sono emersi gli asseriti rapporti del vertice della famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro con la ‘ndrina calabrese dei BARBARO di Platì; – al controllo illecito di una grossa parte del remunerativo settore imprenditoriale delle slot machines e degli apparecchi da gioco installati nei locali commerciali; – all’attività estorsiva posta in essere in danno di un imprenditore, costretto ad astenersi dalla partecipazione ad un’asta giudiziaria finalizzata alla vendita di alcuni terreni; – alla tentata estorsione in danno di un imprenditore operante nel settore della distribuzione e gestione di congegni e apparecchi elettronici; – alla gestione di un impianto di pesatura dell’uva, i cui proventi sarebbero stati in parte destinati al mantenimento dei detenuti; – all’estorsione – consistita nell’imposizione dell’assunzione di uno degli stessi indagati – ai danni di un’impresa aggiudicataria di lavori a Ravanusa (AG); – all’incendio perpetrato ai danni del titolare di un’autodemolizione con deposito giudiziario.

Operazione ‘Dike’: 39 misure cautelari ( le donne hanno collaborato coi capi) contro una delle più imponenti piazze di spaccio dell’isola

 

Infermieri e le droghe, ciò che forse, ignoriamo - Infermieristicamente -  Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche

 

Palermo,

 Notificati già  39 provvedimenti cautelari (14 in carcere, 17 domiciliari e 8 dell’obbligo di presentazione alla P.G.) emessi dall’Ufficio Giudice per Indagini Preliminari di Palermo su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia.

La notifica è stata eseguita dai militari del Nucleo operativo della Compagnia Carabinieri di Palermo.Le indagini hanno fatto emergere gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti aggravata dalla disponibilità di armi e spaccio di sostanze stupefacenti.

Le investigazioni hanno consentito di acquisire un grave quadro indiziario, sostanzialmente accolto dal G.I.P., secondo il quale sarebbe emersa l’esistenza di un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, operante nel quartiere Sperone di Palermo, consentendo l’individuazione della struttura, delle dinamiche organizzative e delle relative strategie criminali.

Stando a quanto riportato nell’ordinanza cautelare, sussistono gravi indizi con riguardo a quanto segue:
− l’attività di spaccio avveniva nei pressi del piazzale Ignazio Calona in favore di innumerevoli acquirenti che accorrevano dall’intera provincia. Si è accertato come lo spaccio di cocaina, crack, hashish e marijuana abbia rappresentato, sovente, una delle principali fonti di sostentamento per intere famiglie, i cui membri risulterebbero integralmente partecipi alle attività delittuose;
− l’organigramma dell’associazione sarebbe stato strutturato su due vertici che gestivano il rifornimento, l’organizzazione della piazza di spaccio e raccoglievano i proventi dell’attività con cadenza settimanale. Le indagini hanno inoltre consentito di acquisire gravi indizi in ordine alla disponibilità da parte del gruppo di armi da fuoco tanto che,nel corso delle attività, è stata sequestrata una pistola clandestina cal. 7.65 perfettamente funzionante;
− un ruolo fondamentale sarebbe stato riconosciuto anche alle donne, parenti dei capi, le quali avrebbero collaborato nella direzione delle attività criminali e nel tenere la contabilità degli introiti, occupandosi, talvolta, anche di custodire lo stupefacente;
− i pusher operativi su strada per conto della delineata associazione, sarebbero stati organizzati su turni di 12 ore per garantire la piena attività, anche in orario notturno, della piazza di spaccio. Ciascuno aveva compiti ben definiti, per i quali era prevista una specifica retribuzione: 100 euro al giorno per gli spacciatori e 50 per le vedette.

Le indagini consentono di stimare che la piazza di spaccio avrebbe garantito al sodalizio consistenti profitti, valutati nell’ordine di 1,8 milioni di euro su base annua. Nel corso dell’attività sono stati già operati alcuni arresti in flagranza di reato, segnalate alla locale Prefettura numerosi acquirenti e sequestrati circa 1 kg di stupefacente e oltre 5000 euro in contanti circa.

Agli indagati sono stati contestati oltre 1.650 singoli episodi di spaccio, ma le emergenze investigative consentono di stimare il numero di cessioni in oltre 500 giornaliere.

È obbligo rilevare – informano i Carabinieri – che gli odierni indagati sono, allo stato, solamente indiziati di delitto, pur gravemente, e che la loro posizione sarà definitivamente vagliata giudizialmente solo dopo la emissione di una sentenza passata in giudicato in ossequio al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza.

 

Confiscati 20 milioni di euro all’imprenditore Sergio Leonardi “che agevolava il Clan mafioso etneo dei Mazzei”

 

 

Catania,

Confisca di beni mobili e immobili, denaro, preziosi e compendi societari nella disponibilità di un noto imprenditore siciliano,(Sergio Leonardi, nella foto sopra) già oggetto di decreto di sequestro in materia di prevenzione antimafia, .    Confisca disposta dalla Procura della Repubblica di Catania , dal Tribunale -Sez Prevenzione  ed eseguita dal  Comando Provinciale di Catania della Finanza

Si tratta, in particolare, di un patrimonio del valore di circa 20 milioni di euro,costituito da 6 attività imprenditoriali, 3 fabbricati, 1 motociclo, denaro contante e diversi preziosi.

L’indagine di prevenzione da cui origina il citato provvedimento si collega all’operazione “VENTO DI SCIROCCO”, condotta dai finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Catania della Guardia di finanza e dai Carabinieri del Nucleo Investigativo etneo, all’esito della quale il predetto imprenditore è stato tratto in arresto, unitamente a 22 persone, in quanto ritenuto responsabile dei reati di associazione di tipo mafioso, associazione per delinquere, estorsione in concorso, intestazione fittizia di beni, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, falsità commessa dal privato in atto pubblico, emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di scritture contabili, con l’aggravante di aver agito al fine di agevolare il clan mafioso etneo dei “Mazzei” (cd. “Carcagnusi”).

I successivi approfondimenti svolti da unità specializzate del GICO del predetto Nucleo PEF volti all’applicazione delle misure di prevenzione, hanno permesso di inquadrare il proposto quale soggetto caratterizzato da “pericolosità qualificata” che avrebbe vissuto abitualmente con i proventi di attività delittuose, essenzialmente consistenti nella perpetrazione continuata di articolate frodi fiscali e di contrabbando aggravato.

Sotto il profilo soggettivo, la carriera criminale del proposto avrebbe avuto inizio nel 2007 sotto l’egida mafiosa dello zio della moglie, all’epoca, capo del clan “SCIUTO-TIGNA”. Dopo la carcerazione di quest’ultimo capo clan, l’imprenditore siciliano, tra il 2009 e il 2011, sarebbe finito sotto l’ala protettrice dei Mazzei, i quali si sarebbero avvalsi del suo operato per il contrabbando di prodotti petroliferi.

Il proposto, al di là delle sue stabili frequentazioni con soggetti gravati da rilevanti precedenti penali e di polizia, è risultato inoltre coinvolto in molteplici vicende giudiziarie per reati edilizi, furto continuato, associazione a delinquere finalizzata alla sottrazione di pagamento dell’accisa sul gasolio da autotrazione e al contrabbando di prodotti petroliferi immessi nel mercato nazionale in evasione d’imposta (Accise e IVA), utilizzo ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, falso ideologico, frode in commercio e turbata libertà del commercio, riciclaggio e autoriciclaggio.

Al descritto profilo soggettivo del proposto è, tra l’altro, corrisposta una rilevante e costante “sproporzione” nel periodo considerato (2007-2017) tra le attività economiche possedute, dal medesimo e dal suo nucleo familiare, e i redditi dagli stessi dichiarati.

Sulla base dei descritti plurimi elementi indiziari, il Tribunale etneo ha ritenuto il proposto “socialmente pericoloso” e che i beni e le attività economiche acquisite dal 2007 al 2017 abbiano rappresentato il frutto e/o il reinvestimento dei proventi della attività illecite, disponendone, con il provvedimento del 2020, il relativo sequestro.

Con la recente decisione, eseguita dal Nucleo PEF di Catania della Guardia di finanza, il giudice ha confermato la bontà della ricostruzione effettuata dai finanzieri etnei nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura etnea, disponendo la confisca del patrimonio nella disponibilità del soggetto proposto e, in particolare, di:

– 4 società e 2 ditte individuali, operanti nel settore del commercio di prodotti petroliferi aventi sede tra Catania, Augusta e Sant’Agata Li Battiati (CT);   (Lbs Trading Srl con sede ad Augusta, Lubricarbo Srl con sede a Catania e deposito commerciale ad Augusta,  Petrol Sel Srl  ed Esse Elle Petroli srl  con sede a Catania), 2 ditte individuali  (La Leonardi Sergio e la Fg Oil di Falspaerla con sede aventi sede a Sant’Agata Li Battiati),- 3 immobili, di cui 2 siti a Catania e 1 in Giardini Naxos (ME); – diversi beni mobili (un motociclo, denaro contante e diversi preziosi), per un valore di circa 20 milioni di euro.

L’attività dei Finanzieri di Catania si inquadra nel più ampio quadro delle azioni svolte da questa Procura e dalla Guardia di Finanza di Catania, volte al contrasto, sotto il profilo patrimoniale, della criminalità economica, al fine di evitare i tentativi, sempre più insidiosi, di inquinare il tessuto imprenditoriale della provincia, anche profittando delle difficoltà legate al periodo di contrazione economica.

 

 

Violenza senza ancora un perchè a Favara. I Carabinieri stanno scavando nel passato dell’omicida

 

Fermato nella sua abitazione dopo il delitto  il presunto assassino del cardiologo Gaetano Alaimo, assassinato nel suo studio medico.  Adriano Vetro, 47 anni, di Favara. Dovrà spiegare tanti perchè..      Sequestrata anche la pistola usata per l”uccisione del cardiologo.

L’assassino – che, si apprende, non è incensurato – avrebbe sparato al professionista nella sala d’attesa del poliambulatorio di via Bassanesi, davanti agli altri lavoratori del centro medico. La vittima è morta sul colpo. Il presunto killer nel frattempo avrebbe lasciato di corsa lo studio medico e si sarebbe rifugiato nella sua abitazione in preda al panico. Qui è stato trovato infatti  tutto tremante, fuori connessione mentale,  dai carabinieri.

 Questo pomeriggio non ci sarebbe stata nessuna discussione fra Alaimo e Vetro, ma pare che ve ne fossero state in passato. Il favarese è arrivato al Poliambulatorio quando la struttura non aveva ancora aperto le porte ai pazienti e, davanti agli impiegati del punto sanitario, ha sparato da distanza ravvicinata un colpo di pistola contro il medico che è stato raggiunto all’altezza del torace. Poi è scappato, ma è stato poco dopo rintracciato dai carabinieri che, giunti in via Bassanesi, hanno subito avuto notizia di chi era stato l’autore del delitto.

 

Confiscati beni, tra cui 90 immobili, 40 milioni di euro, nei confronti di tre imprenditori reggini

 

 

La Guardia di Finanza si conferma ancora una volta la prima della classe. ,Un Provvedimento giudiziario ,emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria è stato notificato  dai  militari dei Comandi Provinciali della Guardia di Finanza e dei Carabinieri di Reggio Calabria, unitamente a personale dello S.C.I.C.O., con il coordinamento della locale Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal Dott. Giovanni Bombardieri

Il provvedimento dispone l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca di beni – per un valore complessivo stimato in oltre 40 milioni di euro – riconducibili a tre imprenditori reggini, operanti nei settori edile, immobiliare, alberghiero, dei servizi e ludico.

Il decreto di confisca in esecuzione fa seguito ad analogo provvedimento eseguito, nello scorso mese di agosto, dai medesimi Reparti, nei confronti di un altro imprenditore edile reggino, che ha consentito la definitiva ablazione da parte dello Stato di un patrimonio complessivamente stimato in oltre 160 milioni di euro.

Secondo quanto emerso dalle indagini, due dei tre proposti, dalla fine degli anni ’80 al 2017, avrebbero avviato e consolidato la propria posizione imprenditoriale facendo leva sul sostegno di storiche locali di ‘Ndrangheta.

Tali evidenze erano emerse, tra le altre, nell’ambito dell’operazione “Monopoli”, eseguita dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, che ha fatto luce su un sistema di cointeressenze criminali coltivate da imprenditori reggini che, sfruttando l’appoggio di cosche cittadine, sarebbero riusciti ad accumulare, in modo del tutto illecito, enormi profitti prontamente riciclati in fiorenti e diversificate attività commerciali. Le indagini sono culminate, nel 2018, con l’esecuzione di provvedimenti restrittivi personali nei confronti, tra gli altri, dei tre imprenditori di cui sopra, dei quali – allo stato del procedimento e fatte salve successive valutazioni in merito all’effettivo e definitivo accertamento della responsabilità – due sono stati condannati in primo grado per i reati di associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori, mentre il terzo proposto è stato condannato in primo grado per il reato di trasferimento fraudolento di valori.

Alla luce delle richiamate evidenze, la locale Direzione Distrettuale Antimafia – sempre più interessata agli aspetti economico-imprenditoriali legati alla criminalità organizzata – ha delegato il Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (G.I.C.O.) del Nucleo PEF della Guardia di Finanza, lo S.C.I.C.O. ed il Nucleo Investigativo dei Carabinieri a svolgere apposita indagine a carattere economico/patrimoniale finalizzata all’applicazione, nei confronti dei citati imprenditori, di misure di prevenzione personali e patrimoniali.

L’attività in rassegna, anche valorizzando le risultanze delle pregresse indagini, ha consentito di ricostruire le acquisizioni patrimoniali effettuate dall’anno 1985 all’anno 2017 e di rilevare, attraverso una complessa e articolata attività di riscontro, anche documentale, il patrimonio direttamente ed indirettamente nella disponibilità degli imprenditori, il cui valore sarebbe risultato sproporzionato rispetto alla capacità reddituale manifestata.

Nel mese di giugno 2019 la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria ha disposto, di conseguenza, il sequestro del patrimonio riconducibile ai citati imprenditori e, successivamente, riconoscendo la validità dell’impianto indiziario, con il provvedimento in esecuzione ha decretato – allo stato del procedimento ed impregiudicata ogni diversa successiva valutazione nel merito – l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca dell’intero compendio aziendale di 10 imprese attive nei settori edile, immobiliare, del commercio al dettaglio di generi di monopolio e ludico, comprensivo, altresì, di 49 immobili, quote di partecipazione al capitale di ulteriori 10 società, 38 tra terreni e fabbricati, beni mobili, nonché disponibilità finanziarie per un valore complessivamente stimato in oltre 40 milioni di euro.

Con il medesimo provvedimento, il locale Tribunale ha sottoposto due dei tre imprenditori alla misura personale della sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza per la durata di anni 3, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale.

L’attività di servizio in rassegna, frutto di una sinergica collaborazione tra Forze di Polizia, efficacemente coordinate dalla Procura Distrettuale reggina, testimonia -comunica il Comando della Finanza -l’elevata attenzione rivolta all’individuazione e alla conseguente aggressione dei patrimoni e delle disponibilità finanziarie illecitamente accumulati dalle consorterie criminali di stampo mafioso, allo scopo di arginare l’inquinamento del mercato e della sana imprenditoria, con l’intento di ripristinare adeguati livelli di legalità, trasparenza e sicurezza pubblica.

 

“Operazione Mare aperto”: scafisti salpavano per prelevare migranti in Tunisia. Costi: fino a 70 mila euro

 

 

L’operazione ‘Mare aperto, avrebbe avuto punti strategici dislocati in più centri dell’isola, come Scicli, Catania e Mazara del Vallo.     Persone specializzate in ‘viaggì per migranti, che prelevavano in Tunisia salpando dalla costa meridionale della Sicilia   Si servivano di piccole imbarcazioni di fortuna,, munite di potenti motori fuoribordo, condotte da esperti scafisti che avrebbero operato nel braccio di mare tra le città tunisine di Al Haouaria, Dar Allouche e Korba e le province di Caltanissetta, Trapani e Agrigento, così da raggiungere le coste italiane in meno di 4 ore.

Secondo gli investigatori  queste persone  avrebbero trasportato dalle 10 alle 30 persone per volta, esponendole a grave pericolo per la vita. Il prezzo a persona, pagato in contanti in Tunisia prima della partenza, si sarebbe aggirato tra i 3.000 e i 5.000 euro e il presunto profitto dell’organizzazione criminale, secondo stime investigative, si attesterebbe tra i 30.000 e i 70.000 euro

I componenti dell’organizzazione risultano ora  destinatari di un provvedimento giudiziario del Gip di Caltanissetta, notificato a  undici tunisini e a sette italiani. Il Gip ha disposto il carcere per 12 di loro e gli arresti domiciliari per gli altri sei.

L’intercettazione: “Se ci fossero stati problemi, come un’avaria al motore, gli scafisti avrebbero potuto “sbarazzarsi dei migranti in alto mare”. Era l’indicazione data dagli organizzatori agli scafisti che partivano dalla costa meridionale della Sicilia per prendere migranti in Tunisia e portarli nell’isola.

. Sei dei 18 destinatari del provvedimento del Gip di Caltanissetta – si apprende -sono ancora irreperibili, perché probabilmente all’estero. Un indagato è stato individuato a Ferrara grazie alla collaborazione della squadra mobile del luogo, uno era già in carcere per reati della stessa tipologia, un tunisino, scarcerato da pochi giorni, era nel Cpr di “Ponte Galeria” a Roma, in attesa di essere rimpatriato. Gli altro sono stati arrestati in Sicilia: otto a Caltanissetta e una a Ragusa.

L’indagine è stata avviata il 21 febbraio del 2019 quando all’imbocco del porto di Gela si era incagliata una barca in vetroresina di 10 metri con due motori da 200 cavalli. Il natante era stato rubato a Catania pochi giorni prima e erano sbarcate decine di persone presumibilmente di origini nordafricane.    Ua coppia di origini tunisine -si scoprì–secondo l’accusa, avrebbe favorito l’ingresso irregolare sul territorio italiano, e di cittadini nord africani. 

Secondo la Procura di Caltanissetta, “sussistono gravi indizi di partecipazione a un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravata” e che aveva “carattere transnazionale in quanto operativa in più Stati”. Contestata anche la circostanza aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita i migranti da loro trasportati e di averli sottoposto a trattamento inumano e degradante i migranti.

Si apprende anche che il 26 luglio 2020, per uno dei viaggi pianificati dagli indagati,  l’avaria dei  i motori  di una barca non consentì di concludere  il  viaggio e il natante è rimasto alla deriva, in “mare aperto”,  poi trovato di fronte le coste di Mazara del Vallo.

La Capitaneria di Porto di Porto Empedocle e del Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Mazara del Vallo, hanno individuato l’imbarcazione durante le fasi di rientro dalle coste tunisine, identificando così gli scafisti. Per la cattura dei 18 indagati destinatari dell’ordinanza del Gip sono stati impegnati 120 uomini della Polizia, della Squadra Mobile di Caltanissetta, del Commissariato di Niscemi, del Reparto Prevenzione Crimine e Unità Cinofile e Reparto Volo di Palermo.

Operazione antimafia tra Sicilia e Lombardia

Si cucì la bocca a processo, boss Ercolano di nuovo ...

Nella foto d’Archivio Benedetto Santapaola e a dx Salvatore Ercolano

Catania

Il Comando regionale della Finanza informa che, su delega della Procura della Repubblica di Catania, i Finanzieri del Comando Provinciale della Guardia di finanza di Catania, con l’ausilio di militari del Comando Provinciale di Messina e di Monza-Brianza, hanno ieri dato esecuzione nella Provincia di Catania, Messina e Monza-Brianza a un’ordinanza, concernente complessivamente 37 indagati, con cui il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania ha disposto:

la custodia cautelare in carcere nei confronti di 24 persone, gravemente indiziate, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione aggravata dal metodo mafioso, traffico organizzato di sostanze stupefacenti, trasferimento fraudolento di valori e detenzione di armi;

il sequestro, finalizzato alla confisca, di tre attività commerciali operanti nei comuni di Calatabiano (CT) e Giardini Naxos (ME).

L’indagine condotta dal GICO del Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Catania, ha riguardato i clan mafiosi CINTORINO e BRUNETTO – articolazioni territoriali, rispettivamente, dei clan catanesi CAPPELLO e SANTAPAOLA-ERCOLANO – attivi nei territori, in particolare, di Calatabiano, Giarre, Fiumefreddo, Castiglione di Sicilia, Mascali e in zone limitrofe, anche della provincia di Messina, come l’area di Giardini Naxos e Taormina.

Le investigazioni hanno consentito, nell’attuale stato del procedimento in cui non è stato ancora instaurato il contradittorio con le parti, di ricostruire l’organigramma e gli interessi criminali dei predetti clan nella fascia ionico-etnea, anche attraverso attività tecniche e servizi di osservazione sul territorio, ulteriormente riscontrate dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e da indagini patrimoniali.

Sotto il primo profilo, sono stati individuati i personaggi di spicco delle predette associazioni che avrebbero ricoperto ruoli di rilievo all’interno delle stesse, contribuendo non soltanto al controllo e alla gestione delle attività criminali sui territori di rispettiva competenza, principalmente connesse alle estorsioni e al traffico di droga, ma anche partecipando agli incontri periodici tra i due clan, volti alla spartizione degli affari mafiosi e alla risoluzione di controversie o problematiche nelle zone di comune interesse, come quelle di Giardini Naxos e Taormina.

L’attività investigativa ha inoltre permesso di ricostruire gli interessi criminali dei clan, acquisendo un quadro gravemente indiziario in merito ai “reati fine”, strumentali al sostentamento delle associazioni mafiose e dei sodali detenuti, tra cui le estorsioni ai danni di imprenditori catanesi e delle aree contigue in provincia di Messina, il traffico di sostanze stupefacenti e l’acquisizione della gestione e del controllo di attività economiche.

Nel dettaglio, con riferimento all’attività estorsiva, le indagini avrebbero documentato 6 estorsioni che sarebbero state consumate con modalità tipicamente mafiose ai danni di attività commerciali attive nei settori della vendita di alimenti e bevande, della balneazione ed edile, corroborate dalle evidenze emerse dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia e dall’escussione di persone informate sui fatti. la custodia cautelare in carcere nei confronti di 24 soggetti nonché il sequestro delle predette società.

L’attività investigativa in questione si inquadra nel più ampio quadro delle azioni svolte da questa Procura e dalla Guardia di Finanza volte al contrasto, sotto il profilo economico-finanziario, delle associazioni a delinquere di tipo mafioso, anche al fine di evitare i tentativi, sempre più pericolosi, di inquinamento del tessuto imprenditoriale, e di partecipazione al capitale di imprese sane, anche profittando delle difficoltà legate al periodo di contrazione economica.