L’orrore della Mafia siciliana: fine della libertà per Giuseppe Costa, l’uomo che costruì la cella del piccolo Di Matteo sciolto nell’acido peggio di un animale

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I Carabinieri del Comando Provinciale di Trapani e il personale della Direzione Investigativa Antimafia, in esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Palermo, su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, hanno arrestato  Giuseppe Costa per associazione a delinquere di tipo mafioso-comunica il Comando – in quanto appartenente a Cosa Nostra.

Gli operanti, alle prime luci dell’alba, hanno perquisito anche l’abitazione del Costa, in località Purgatorio di Custonaci (TP), ove lo stesso aveva realizzato in muratura la “cella” dove era stato segregato-per indurre il padre a ritrattare – il piccolo Giuseppe Di Matteo, (figlio dodicenne del collaboratore di giustizia Mario Santo), poi barbaramente ucciso e sciolto nell’acido. 

Costa è colpevole, secondo gli inquirenti, per aver fornito, prima, la massima assistenza ai muratori nella fase di realizzazione della cella dove è stato rinchiuso il bambino e poi ai carcerieri dopo, a favore dei quali si è adoperato per rendere loro il soggiorno confortevole, foraggiandoli di tutto punto e non facendo loro mancare la sua assidua presenza.

 

 

La vittima Giuseppe Di Matteo con uno dei suoi carnefici, Giovanni Brusca- (nella foto sotto )ricorderemo i tratti più orroici della Mafia siciliana-  ha giocato a lungo nella sua casa di Altofonte, come fosse un fratello maggiore. Ma nel 1993, per 779 giorni, lo terrà prigioniero fino a quando, insieme a dei complici, gli strappera’ la vita così prematuramente. Tutto iniziò in un maneggio, dove Giuseppe andava a cavallo, sognando di diventare un fantino. È lì che il 23 novembre 1993 si è presentato un gruppo di poliziotti della DIA (Direzione investigativa antimafia). «Ti portiamo da tuo padre» gli dicono. «Me patri, sangu mio!» risponde il bimbo entusiasta. Ma quelli, scopre presto, non sono della DIA. Tantomeno si tratta di poliziotti. Sono invece mafiosi travestiti da agenti, e lo stanno portando via per sempre. Vogliono usarlo come arma di ricatto. Il padre di Giuseppe, infatti, si chiama Santino, detto Mezzanasca. Ed è uno dei primi pentiti dell’ala corleonese. Sta raccontando ai magistrati cosa è successo a Capaci, quando il 23 maggio 1992, il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta sono saltati per aria. E Brusca è l’uomo che li ha fatti esplodere. Tenendone in pugno il figlio, i boss pensano così di farlo ritrattare.
«L’abbiamo legato come un animale – dirà in aula molti anni più tardi il pentito Gaspare Spatuzza – e l’abbiamo lasciato nel cassone di un furgoncino. Lui piangeva, siamo tornati indietro perchè ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo».


Giuseppe Costa, durante la lunga detenzione (dal 1997 al febbraio 2007) ha ricevuto il sostegno economico del sodalizio mafioso senza mai collaborare con gli inquirenti. Subito dopo la scarcerazione, ha rinsaldato le sue relazioni con i vertici dei mandamenti di Trapani e Mazara del Vallo per l’aggiudicazione di appalti, le speculazioni immobiliari, risoluzione di dissidi tra privati, l’attività intimidatoria, il riparto di proventi di denaro ricavati da attività illecite, nonché ha partecipato alla mobilitazione mafiosa per le elezioni regionali dell’autunno del 2017 e assunto il ruolo di controllore e tutore degli interessi di Cosa Nostra su un impianto di calcestruzzi della provincia trapanese.