Roma –Comunicato-
“Desidero ringraziare il Presidente Marco Impagliazzo per l’invito a questo incontro, così significativo.
Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, ospite di questo evento.
Saluto cordialmente anche il Presidente della Conferenza Episcopale italiana, il Segretario Generale della Lega Musulmana mondiale e il Rabbino capo di Francia. Un saluto cordiale a tutti i presenti. Benvenuti a Roma. Il momento in cui avviene questo incontro richiama tutti noi a corrispondere a una responsabilità esigente.
Lo “Spirito di Assisi” spira dal 27 ottobre del 1986, giorno in cui Giovanni Paolo II riunì, per la prima volta, rappresentanti delle religioni mondiali per chiedere la fine dei conflitti nella città di San Francesco.
Rappresentò una breve tregua universale, mentre si levava la preghiera interreligiosa per invocare la pace. Testimonianza di quanto religioni e politica possano e debbano parlarsi; e della forza che le religioni racchiudono e possono esprimere nella loro accezione più alta e consapevole.
Dinanzi a un presente tanto inquietante, al proliferare di conflitti in tante parti del mondo, a una guerra che di nuovo insanguina l’Europa, si sarebbe indotti a pensare che l’umanità non sia in grado di imparare dai propri errori, che si sia smarrita quella memoria collettiva che dovrebbe guidare e dovrebbe impedire di commettere gli stessi tragici errori.
La preghiera di Assisi è stata un seme gettato consapevolmente dai leader religiosi di fronte alla aggressione recata al bene della vita, al diritto della persona – di ogni persona – a vivere in pace. È stata un’espressione vigorosa della loro capacità di raccogliere – come diceva poc’anzi il professor Riccardi – “gli aneliti, le sensibilità, le attese di comunità radicate nei territori vicini alle sofferenze, alle speranze, al sudore delle persone”. Ed è stata, altresì, un’espressione vigorosa della loro libertà.
Un seme fatto fruttare da chi, come la Comunità di Sant’Egidio opera quotidianamente, anche con una azione preziosa di mediazione per la pace: non “incontri casuali” ma tenace perseguimento di sentieri di pace.
È questo l’impegno di tanti protagonisti – di ispirazione religiosa e non – per costruire ponti di solidarietà e di dialogo: a loro va la nostra sincera riconoscenza.
Si tratta di un impegno che invoca il contributo di ciascuno affinché “il grido della pace” si diffonda con sempre nuova forza.
Per questo siamo qui oggi, in tanti, da diverse parti del mondo.
La sfida è sempre la stessa: realizzare con perseveranza percorsi di pace, attraverso un impegno collettivo della comunità internazionale che valorizzi il dialogo, i negoziati, il ricorso alla diplomazia in luogo delle armi.
Si tratta di un lavoro faticoso, che richiede cura e opera paziente, perché la pace è tale soltanto se porta con sé l’antidoto contro l’insorgere di nuove guerre, se è sostenibile nel tempo e se è ampiamente condivisa.
È un patrimonio che in Europa abbiamo dato per scontato e di cui oggi, invece, ci viene drammaticamente ricordata la fragilità.
La pace è un processo, non un momento della storia: ha bisogno di coraggio, di determinazione, di volontà politica e di impegno dei singoli.
L’opera delle religioni e dei loro leaders in questa direzione è fondamentale, a partire dal richiamo che uomini e donne sono “figli e figlie dello stesso cielo”.
Vale per il rispetto reciproco tra le diverse comunità dei credenti, vale per il rispetto della dignità di ogni persona e di ogni popolo.
Dunque, se le religioni sono – come ha ricordato Sua Santità Francesco – “parte della soluzione per una convivenza più armoniosa”, con l’affermazione di “un sacro valore della fraternità”, è il valore della solidarietà a dover ispirare l’ordinamento internazionale.
È la convinzione del Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayeb, quando ribadisce che “la pace fra i popoli è un frutto della pace tra le religioni e la fraternità religiosa è il motore della fraternità umana universale”.
Sono parole che rappresentano passi avanti fondamentali. Non esiste una “guerra santa”! Deve esistere, invece, una “pace santa”, per servire autenticamente l’umanità e il suo futuro.
Il disordine produce disordine. Le guerre hanno un effetto “domino”, moltiplicatore. Le guerre sono contagiose. Ma, come ha scritto il rabbino Haïm Korsia “occorre reinventare le aurore”.
L’impegno genuino delle religioni sul terreno temporale non può prescindere da questo orizzonte. Ed è confortante registrare quanti passi sono stati compiuti nel dialogo tra i leader di diverse confessioni religiose e il contributo che recano alla causa della pace.
Esistono ampi spazi nei quali leader civili e religiosi, ciascuno nell’ambito e nel rispetto delle prerogative proprie, possono unire i loro sforzi per il bene collettivo universale.
Come è naturale, è compito delle istituzioni e dei leaders politici collaborare alla definizione di un ordine internazionale che sottragga alla tentazione della guerra.
La condizione dei popoli è caratterizzata da forti disuguaglianze. Il rapporto Nord-Sud, in particolare – gravato da eredità e da condizioni contemporanee di grande sofferenza – è lontano dall’aver raggiunto un accettabile equilibrio che riconosca la dignità di ogni essere umano. Il tema della emigrazione e della immigrazione, che ne sono conseguenza, chiama la coscienza di ciascuno a interrogarsi sulla effettiva, autentica applicazione della Carta internazionale dei diritti umani.
Tutto questo invita a riflettere su quale sia la base che può consentire l’edificazione di un ordine internazionale più giusto, consapevole che i destini dell’umanità sono inevitabilmente condivisi e che il bene comune di una singola comunità deve integrarsi con il bene comune di ciascun’altra, e non contrapporvisi.
Il “fare pace” parte da una esigenza urgente: quella di restaurare i rapporti fra gli uomini.
La fine delle guerre ha sovente rappresentato, a mezzo di convenzioni e la stipula di trattati, l’elemento costituente di un nuovo equilibrio internazionale, basato sul riconoscimento dell’esistenza di potenze vincitrici e di Stati soccombenti.
A settantasette anni dalla Carta di San Francisco delle Nazioni Unite è legittimo guardare al prezioso cammino percorso e, insieme, valutare i limiti dell’esperienza compiuta.
Serve il coraggio di un passo avanti. È possibile immaginare che il potere costituente dell’ordine internazionale non sia più soltanto la auspicabile conclusione dei conflitti, ma che, alla base di un nuovo ordine globale, vi possa essere spirito di pace?
Se vuoi la pace preparala: è stata un’esortazione più volte ripetuta nei secoli. Non si può giungere alla pace esaltando la guerra e la volontà di potenza.
Perché la pace è integrale o non esiste. E non esiste se non è corroborata da verità e giustizia.A questi principi si sono conformate la Costituzione e i comportamenti della Repubblica Italiana sin dal suo sorgere.
Una Costituzione frutto di una coscienza che abbiamo dolorosamente maturato nella ferocia devastante della Seconda guerra mondiale, cui ci avevano condotto le dittature del Novecento.
È lo stesso spirito che ha animato i fondatori della costruzione europea – a partire dalla Dichiarazione Schuman del 1950 sino all’odierna Unione – dove è prevalsa una cultura di pace laddove per secoli aveva imperversato la guerra.
All’indomani del conflitto, la comunità internazionale decise di dotarsi di un sistema multilaterale teso anzitutto a prevenire e gestire i conflitti.
La condizione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ben presto avrebbe limitato in larga misura il perseguimento di questa aspirazione e, ciò nonostante, innegabili sono stati i successi conseguiti nella cooperazione fra gli Stati.
Occorreva un ulteriore passo avanti che non riuscì a produrre – negli anni ‘90 del secolo scorso – neppure il venir meno della competizione tra sistemi politico-economici diversi che aveva caratterizzato la tensione bipolare del mondo.
Sono riapparse pulsioni che ci hanno ricondotto indietro. Persino ambiti fin qui dedicati a un comune impegno scientifico, come lo spazio, rischiano di diventare teatro di competizione militare. Hanno fatto la loro ricomparsa i demoni, i fantasmi dell’aggressione dell’uomo contro l’uomo.
La sciagurata guerra mossa dalla Federazione Russa contro l’Ucraina rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze per il mondo intero.
Quella aggressione stravolge le regole, i principi e i valori della vita internazionale. Approfondisce le divisioni nella comunità globale chiamata, invece, a trovare soluzioni cooperative urgenti a problemi comuni: le crisi sanitarie e alimentari, gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici, le minacce terroristiche.
Più che mai, in questo momento, abbiamo bisogno di un multilateralismo efficace. In questo impegno comune, accanto alle istituzioni internazionali e agli Stati, risulta sempre più importante il contributo di tutte le espressioni della società.
La minaccia che ci troviamo ad affrontare induce taluno a porre di fronte allo spettro di un ricorso all’arma nucleare.
Sarebbe la perversa tentazione dell’escalation, della spirale di violenze che si alimentano di violenza. L’affermazione della logica dei più brutali e insensati rapporti di forza, che credevamo relegati a un oscuro passato.
Dinanzi all’evocazione di scenari tanto terribili le nostre coscienze invocano la difesa di quel diritto alla pace che ci riunisce qui, oggi.
Una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito.
Avvenga in Europa, in Medio-Oriente, in Africa, ovunque nel mondo. In Ucraina, come altrove, occorre riannodare i fili dell’umanità che la guerra spezza: vite, famiglie, legami umani e sociali.
Occorre impedire che una nuova linea di “faglia” attraversi il mondo e si aggiunga alle troppe che già caratterizzano l’Europa, il Medio-Oriente, in tanti luoghi del mondo, separando i popoli con rinnovate cortine di odio.
Per quanto ci riguarda è anzitutto una sfida in Europa e per l’Europa. Non possiamo consegnarci all’ingiustizia delle situazioni di fatto, né allo strazio di guerre “infinite”.
L’Europa non può e non deve permettersi di cadere “prigioniera” della precarietà, incapace di assolvere al suo naturale ruolo di garante di pace e di stabilità nel continente e nelle aree vicine.
Ne va della nostra stessa libertà e prosperità. Non saranno mai abbastanza numerose le iniziative dirette a promuovere la pace, qui, come a Parigi, con la imminente quinta edizione del Forum de Paris sur la Paix, con un’ambizione inclusiva per una pace integrale.
Dobbiamo saper raccogliere l’urlo della sofferenza e il grido della pace che viene dalle donne e dagli uomini del pianeta, per tradurli in atti concreti che diano forza a un impegno condiviso e traducano in realtà la comune speranza.