Con l’inizio del nuovo anno scolastico, il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute ‒ d’intesa con il Ministero della Salute ‒ ha avviato una campagna di controlli a livello nazionale volta alla verifica del rispetto dei requisiti previsti dalla normativa di riferimento nel settore della ristorazione all’interno degli istituti scolastici.
Le attività ispettive sinora condotte ‒ e che continueranno nel corso di tutto l’anno scolastico ‒ hanno interessato oltre 700 mense scolastiche di ogni ordine e grado sia pubbliche che private, dalle scuole dell’infanzia agli istituti superiori ed universitari. In quasi 1 mensa su 4 (circa 170) sono state riscontrate irregolarità che, nella maggioranza dei casi, hanno riguardato carenze igienico-strutturali (diffusa umidità, formazioni di muffe, presenza di insetti e di escrementi di roditori) e autorizzative, la non rispondenza per qualità/quantità ai requisiti prestabiliti dai capitolati d’appalto, la mancata tracciabilità degli alimenti nonché l’omessa presenza di eventuali allergeni, quest’ultima essenziale per prevenire possibili reazioni allergiche specialmente nei bambini in quanto soggetti più fragili.
Nel complesso, sono state accertate 225 violazioni amministrative o penali e irrogate sanzioni pecuniarie per 130 mila euro; nei casi più gravi, 5 gestori sono stati deferiti all’A.G. ed è stato disposto il sequestro di punti cottura/dispense nonché di 350 kg. di alimenti (in cattivo stato di conservazione, privi di tracciabilità, scaduti e/o con etichettatura irregolare) per un valore approssimativo di 5M€.
In particolare:
▪ NAS di Treviso (p.o.c. 0659944326) Presso un centro educativo per l’infanzia sono stati accertati il mancato possesso di autorizzazione all’esercizio della refezione scolastica e l’omessa registrazione sanitaria. L’intera struttura, che gestiva bambini di età compresa tra 2 e 6 anni, è stata posta sotto sequestro amministrativo. ▪ NAS di Pescara (p.o.c. 08565961) Presso un asilo nido, è stata disposta l’immediata sospensione di tutte le attività di manipolazione e somministrazione di alimenti a seguito delle accertate carenze igienico-sanitarie e strutturali dei locali nonchè della mancata autorizzazione all’attivazione della mensa. ▪ NAS di Caserta (p.o.c. 0823324153) Il titolare di una ditta incaricata del servizio di fornitura vitto per la refezione scolastica è stato denunciato per frode nelle pubbliche forniture, in quanto è stato appurato che veniva apposta fraudolentemente l’etichetta della ditta sulle vaschette di pasti prodotte da altre aziende.
Le eventuali persone deferite all’Autorità giudiziaria- comunica infine il Comando – sono da ritenersi presunti innocenti fino a un definitivo accertamento di colpevolezza in successiva sede processuale.
Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma
Roma,
Ai fini di garantire il diritto di cronaca costituzionalmente garantito per la rilevanza dei fatti, nel rispetto dei diritti degli indagati e dei terzi coinvolti, riportiamo il comunicato della Guardia di Finanza:
I finanzieri del Comando Provinciale di Roma, su disposizione di questa Procura della Repubblica, hanno dato esecuzione a decreti di perquisizione locale, domiciliare e di contestuale sequestro nei confronti di diversi soggetti indagati, a vario titolo, per le ipotesi di associazione per delinquere, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, turbata libertà degli incanti, frode nelle pubbliche forniture, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e autoriciclaggio.
Le vicende riguardano presunti episodi corruttivi e fraudolenti posti in essere in fase di aggiudicazione ed esecuzione di appalti banditi nel settore della manutenzione e rifacimento del manto stradale, da Roma Capitale e ASTRAL – Azienda Strade Lazio S.p.A.
Tra gli indagati figurano altresì 5 pubblici ufficiali in servizio presso i citati soggetti pubblici, nei cui confronti sono in corso perquisizioni, sia presso i domicili che nei rispettivi luoghi di lavoro. Le attività di perquisizione riguardano, inoltre, la sede legale e una filiale di un istituto di credito (non sottoposto a indagini).
Il provvedimento in questione è stato emesso nell’ambito della fase delle indagini preliminari allo stato delle attuali acquisizioni probatorie ed è doveroso sottolineare che sino a un giudizio definitivo vale la presunzione di non colpevolezza degli indagati.
I Finanzieri del Comando Provinciale di Catania, a conclusione di complesse attività d’indagine coordinate dalla Procura della Repubblica etnea, hanno dato esecuzione, nelle province di Catania, Caltanissetta, Messina, Siracusa, Ragusa, Trapani, Cosenza, Vibo Valentia, Napoli, Roma, Viterbo e Varese, con il supporto degli omologhi Comandi Provinciali nonché del I Gruppo etneo, a un’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari presso il locale Tribunale ha disposto l’applicazione di misure cautelari personali nei confronti di 15 soggetti (2 in carcere, 4 agli arresti domiciliari e 9 destinatari di interdittiva), a vario titolo indagati, unitamente ad altre 14 persone, per associazione a delinquere, emissione di fatture per operazioni inesistenti (FOI), dichiarazione dei redditi infedele e fraudolenta mediante l’utilizzo di FOI nonché indebita compensazione di crediti fiscali inesistenti.
Sulla scorta del medesimo provvedimento cautelare, i Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Catania hanno eseguito anche il sequestro preventivo di 28 società commerciali coinvolte nella frode fiscale nonché di disponibilità finanziarie, di beni mobili ed immobili riconducibili ai principali indagati per un valore complessivo di oltre 8,2 milioni di euro.
Le indagini, svolte anche mediante attività di intercettazione telefonica e ambientale, accertamenti bancari, acquisizioni documentali, escussione di persone informate sui fatti e servizi di osservazione, hanno portato alla luce, nell’attuale fase del procedimento in cui non si è ancora instaurato il contraddittorio con le parti, un diffuso sistema di frodi fiscali, realizzato attraverso la creazione di consorzi di imprese con il solo scopo di operare la somministrazione illecita di manodopera a favore delle aziende clienti, celata sotto forma di falsi appalti di servizi.
Le investigazioni hanno preso avvio a seguito dello svolgimento di una serie di controlli fiscali, che avrebbero fatto emergere i segnali di un fenomeno illecito organizzato e particolarmente diffuso, specie tra le imprese operanti nel settore turistico-alberghiero di Sicilia, Calabria e Lazio, dannoso sia per l’Erario, a causa dell’ingente evasione di imposte (dirette e IVA) e contributi previdenziali, sia per le aziende che operano lecitamente sul mercato, meno concorrenziali rispetto a quelle che si sarebbero avvantaggiate della frode, in grado di praticare tariffe più convenienti in virtù dei conseguenti più elevati margini di guadagno.
Il meccanismo di frode prevedeva uno schema operativo ricorrente.
In primo luogo, la costituzione di entità giuridiche in forma di consorzi (con sede legale a Roma e Firenze) e società consorziate (oltre 26 susseguitesi nel tempo distribuite tra le province di Milano, Firenze, Roma, Catania e Messina), tutte prive di una propria organizzazione, di mezzi e senza l’assunzione di alcun rischio d’impresa, aventi di norma un ciclo di vita molto breve durante il quale avrebbero accumulato, senza onorarli, ingenti debiti tributari.
Tali soggetti giuridici, legalmente rappresentati da prestanome, spesso nullatenenti e privi di competenze professionali adeguate al ruolo apparentemente rivestito, avrebbero operato come meri serbatoi di manodopera, nel senso che sarebbero stati utilizzati esclusivamente per assumere un numero elevatissimo di lavoratori, per la maggior parte provenienti dalle aziende divenute clienti, per poi metterli a disposizione proprio di queste ultime sotto forma di appalto di servizi fittizio. In realtà, come emerso dalle investigazioni, i lavoratori non hanno mutato né sede lavorativa, né qualifica professionale, rimanendo, di fatto, alle dipendenze dell’originario datore di lavoro per continuare a svolgere le proprie ordinarie mansioni.
Lo scopo sarebbe stato dunque quello di esternalizzare, solo in apparenza, la forza lavoro, in modo da conseguire diversi vantaggi consistenti:
per le società clienti, nella maggiore flessibilità a fronte di una riduzione di costi sul lavoro, potendo modulare l’entità della manodopera in base alle esigenze di periodo e, al contempo, risparmiare sugli oneri retributivi, assicurativi, previdenziali e normativi connessi alle diverse tutele riconosciute ai lavoratori; ciò per effetto del licenziamento dei dipendenti delle predette aziende e della parallela assunzione in capo alle consorziate. Per di più, la stipula (solo formale) di un contratto di appalto avrebbe consentito alle clienti di detrarre l’iva applicata in fattura (non genuina) relativa ai “presunti servizi” erogati;
per gli ideatori del “sistema consorzio”, negli ingenti profitti illeciti derivanti dal mancato pagamento allo Stato dei debiti erariali (per imposte e contributi) maturati dal consorzio e dalle consorziate, neutralizzati attraverso indebite compensazioni con crediti IVA inesistenti derivanti dal simulato acquisto di beni strumentali da società “cartiere”, in realtà appositamente costituite dal sodalizio criminale per emettere fatture false.
Quest’ultima operazione è risultata essenziale nella filiera del sistema fraudolento in quanto, beneficiando di compensazioni con crediti inesistenti, le consorziate hanno potuto certificare al cliente finale di avere “correttamente” assolto agli obblighi di versamento, fornendo la certificazione di regolarità contributiva (da INPS o INAIL competente per territorio) ovvero il modello DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva). L’escamotage in parola ha infatti consentito di aggirare le disposizioni introdotte dal legislatore per contrastare il fenomeno delle somministrazione illecita di manodopera come, a esempio, le disposizioni dell’art. 4 del D.L.124/2019 le quali obbligano le imprese che ricorrono ad appalti, subappalti, affidamenti a soggetti consorziati caratterizzati da prevalente utilizzo di forza-lavoro, come nel caso di specie, a richiedere certificazione di regolarità di pagamento delle imposte e dei contributi.
E’ stato stimato che, negli ultimi 5 anni, il giro di fatture “false” legato al sistema di frode nel suo complesso sarebbe stato pari a oltre 56 milioni di euro di imponibile e oltre 13 milioni di IVA, garantendo profitti illeciti all’associazione a delinquere per oltre 8 milioni di euro, la metà dei quali distribuita agli organizzatori del sistema sotto forma di compensi professionali, stipendi, rimborsi spese.
Le attività di indagine hanno permesso di comprendere che il centro decisionale di tutto il sistema fraudolento sarebbe ubicato a Catania, presso lo studio di un commercialista e del suo collaboratore, promotori e organizzatori del sodalizio criminale sebbene gli stessi non abbiano ricoperto alcun ruolo formale nei consorzi e nelle consorziate e nonostante il fatto che le tali società avessero sede legale in diverse province italiane (Milano, Firenze, Roma, Messina e Catania), talvolta presso civici inesistenti o locali vuoti e/o in disuso.
Per la realizzazione del disegno criminoso, i predetti ideatori del “sistema consorzio” sarebbero stati coadiuvati da una serie di partecipi all’associazione a delinquere e da altri collaboratori esterni ad essa. Tra i primi vi è un soggetto originario di Cosenza (cl. 1969), responsabile e referente della rete commerciale in Calabria e nel Lazio, uno di Catanzaro (cl. 1969), referente di alcune strutture ricettizie operanti in Calabria, nelle plurime vesti di imprenditore, professionista, consulente del lavoro e depositario delle scritture contabili di società clienti dei consorzi nonché procacciatore di clienti per questi ultimi, e due addette, originarie di Nicosia e Roma (cl. 1982 e 1968), per la gestione dei clienti/appaltanti, degli adempimenti giuslavoristici riguardanti i lavoratori in carico alle consorziate affidatarie e dell’interlocuzione e gestione delle teste di legno posti a capo dei consorzi e delle consorziate in qualità di legali rappresentanti.
Gli altri collaboratori, esterni alla compagine criminale, sarebbero costituiti da una serie di fedeli personaggi, in tutto 9, pronti ad assumere il ruolo di amministratore di diritto delle diverse società via via costituite, facendo da paravento all’attività svolta dai suddetti indagati e informandoli anche nei casi di avvio di attività ispettive da parte di reparti territoriali della Guardia di Finanza.
Sulla scorta delle evidenze acquisite dai finanzieri del Nucleo PEF di Catania, il GIP presso il locale Tribunale, su proposta della Procura etnea, ha dunque ritenuto sussistente in capo agli indagati un grave quadro indiziario in ordine ai reati contestati disponendo:
la custodia cautelare in carcere nei confronti dei due promotori dell’associazione a delinquere, già destinatari di analoga misura nel 2020 a seguito delle indagini per frode fiscale condotte sempre dalle Fiamme Gialle etnee, su delega della locale Procura, nell’ambito dell’operazione convenzionalmente denominata “FAKE CREDITS”; gli arresti domiciliari per gli altri 4 partecipi all’associazione a delinquere e il divieto per un anno di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche per i restanti 9 soggetti, ritenuti più stretti collaboratori dei suddetti promotori;
il sequestro di 28 società, utilizzate per realizzare il sistema di frode, nonché di disponibilità finanziarie, di beni mobili ed immobili riconducibili agli indagati per un valore complessivo di oltre 8,2 milioni di euro.
Nel corso dell’esecuzione dei provvedimenti del G.I.P. si è parallelamente proceduto alla perquisizione locale e informatica disposta dal P.M. inquirente nei confronti dei rappresentanti legali delle aziende “clienti” che appaiono aver usufruito maggiormente della somministrazione illecita di manodopera, al fine di raccogliere ulteriori elementi indiziari a riprova dell’ipotesi di reato a loro ascritta di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e della sussistenza di responsabilità amministrativa, ai sensi del d.lgs. 231/2001, in capo alle società da loro amministrate per i vantaggi che avrebbero ottenuto dalla frode.
L’attività si inserisce nel più ampio quadro delle azioni svolte dalla Procura e dalla Guardia di finanza di Catania a tutela della finanza pubblica, con lo svolgimento di complesse indagini volte, da un lato, a tutelare le imprese sane dalle più insidiose forme di frode fiscale, contrastando fenomeni illegali in grado di distorcere le regole della libera concorrenza, e, dall’altro, a garantire- informa il Comando – il recupero degli illeciti proventi dell’evasione, da destinare, una volta definitivamente acquisiti alle casse dello Stato, anche a importanti interventi economico e sociali.
I finanzieri del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Napoli informano di aver eseguito un decreto di sequestro preventivo, emesso dal GIP presso il Tribunale di Nola, per un ammontare di oltre 2,2 milioni di euro, nei confronti di una società di Marigliano (NA) attiva nel settore edile, e del suo rappresentante legale, per i reati di omessa dichiarazione e indebita compensazione, di cui agli artt. 5 e 10-quater del D. Lgs. n. 74/2000.
In particolare, le indagini sono scaturite dagli esiti di una verifica fiscale eseguita dai finanzieri della Compagnia di Casalnuovo di Napoli nei confronti della citata società che, nonostante risultasse sconosciuta al Fisco, ha gestito diversi cantieri in comuni dell’hinterland partenopeo (Marigliano, Volla, Brusciano ed altri), conseguendo un reale giro d’affari di decine di milioni di euro, dal 2017 al 2021, per la costruzione di nuovi edifici.
Nel corso dell’intervento ispettivo, sono stati individuati, inoltre, quattro lavoratori “in nero” nonché è stato accertato l’omesso versamento, da parte della società all’INPS e all’INAIL, dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti dagli stipendi di 15 lavoratori regolarmente assunti, per oltre mezzo milione di euro.
Gli elementi di prova raccolti e trasmessi alla competente Procura della Repubblica presso il Tribunale di Nola hanno permesso di richiedere e ottenere la misura cautelare patrimoniale emessa nella forma “per equivalente”.
Pertanto, sono stati sottoposti a sequestro disponibilità finanziarie in capo all’indagato, quote sociali, unità immobiliari e terreni in provincia di Napoli, nonché autoveicoli, 20 mila euro in contanti e 8 orologi di marca Rolex, rinvenuti nel corso delle perquisizioni.
Il provvedimento eseguito è una misura cautelare disposta in sede di indagini preliminari avverso cui sono ammessi mezzi di impugnazione, e il relativo destinatario è persona sottoposta ad indagini e, quindi, presunto innocente fino a sentenza definitiva.
Un 46enne è stato arrestato a Roma dagli agenti della Polizia ferroviaria, su segnalazione dei colleghi della Squadra mobile di Padova, per aver truffato una coppia di anziani nella città veneta.
Nel pomeriggio di mercoledì scorso è arrivata alla sala operativa della questura di Padova una richiesta di aiuto da parte di una coppia di persone che era stata appena truffata col metodo del “falso nipote”.
La coppia, mentre era in casa, ha ricevuto la telefonata da parte di un uomo che si era qualificato come un maresciallo dell’Arma dei carabinieri intimando al marito di recarsi presso il Comando di zona e presso la Motorizzazione al più presto perché una vettura a lui intestata aveva causato un reato grave.
Lo stratagemma ha costretto l’anziano a lasciare da sola la moglie che nel frattempo ha ricevuto un’altra chiamata dal “maresciallo” che gli ha comunicato che il figlio era stato arrestato per aver investito una giovane ragazza e che sarebbero serviti molti soldi per tirarlo fuori dai guai.
Di lì a poco, il falso carabiniere si è presentato in casa e si è fatto consegnare dalla terrorizzata vittima soldi e gioielli, da consegnare ad un “incaricato” in tribunale, per un valore vicino ai 300mila euro, per poi allontanarsi velocemente.
I poliziotti della Squadra mobile, una volta ricevuta la segnalazione, si sono attivati per risalire al criminale e, grazie ad una tempestiva attività di indagine, sono riusciti a scoprire che lo stesso si era imbarcato su un treno diretto alla stazione di Napoli centrale.
Sono stati quindi contattati i colleghi della Polfer di Roma che, grazie alla dettagliata descrizione fornita, sono riusciti a individuare e arrestare il truffatore che aveva con sé l’intero bottino, poi restituito alla coppia di anziani.
Sono stati sottoposti a fermo di indiziato di delitto i tre cittadini tunisini accusati di avere, in concorso tra loro, compiuto atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio nazionale di 24 migranti loro connazionali, trasportandoli fino in prossimità delle coste italiane.
I clandestini viaggiavano bordo di un peschereccio battente bandiera tunisina, che a sua volta rimorchiava un’imbarcazione in ferro vuota, sulla quale i migranti sono stati fatti salire prima di abbandonarli nelle acque italiane, lasciandoli in pericolo di vita.
L’aereo “Eagle 1” dell’Agenzia europea Frontex, che stava pattugliando quel tratto di mare, ha avvistato il peschereccio quando ancora si trovava in acque internazionali, notando il natante in ferro a rimorchio ancora vuoto, intuendo ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
A quel punto sono scattati i soccorsi e sul posto sono state inviate le motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza di Lampedusa, che hanno trovato i migranti in balia del mare, aggrappati alla barca in ferro che stava affondando.
Subito dopo le motovedette hanno intercettato il peschereccio che stava navigando verso le coste tunisine.
La successiva indagine svolta dai poliziotti del Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia di Stato e delle Sezioni investigative dello Sco, insieme agli investigatori della Squadra mobile di Agrigento e ai militari della Guardia di finanza e della Guardia costiera, ha accertato, tra le altre cose, anche l’assenza di elementi che confermassero l’operatività del peschereccio in attività di pesca.
I Carabinieri, con il coordinamento della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, hanno eseguito nel circondario di Lamezia Terme e in altri centri del territorio nazionale, un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 59 persone. Cinquanta sono finiti in carcere, mentre 9 agli arresti domiciliari.
Sono accusati di associazione di tipo ‘ndranghetistico, associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, anche aggravata dalle modalità e finalità mafiose, nonchè in ordine ad altri numerosi reati, anche aggravati dalle modalità e finalità mafiose.
La gravità indiziaria acquisita a livello cautelare- informa il Comando – riconduce, altresì,al parallelo sodalizio, operante sotto l’egida e nel contesto della medesima consorteria ‘ndranghetista, dedito alla produzione e al traffico di sostanze stupefacenti di vario genere, delineandone la struttura e le linee d’azione. In particolare, a seguito del monitoraggio, avviato nel novembre 2021, di alcune piazze di spaccio situate tra il parco “Peppino Impastato” e via del Progresso in Lamezia Terme, grazie alle diverse attività captative, corroborate da importanti riscontri e sequestri a carico dei soggetti coinvolti in qualità di pusher o assuntori, è emersa, progressivamente, una sempre più intricata rete di collegamenti, con la individuazione dei canali di approvvigionamento dello stupefacente, riconducibile alla più articolata organizzazione criminale, gestita da esponenti della famiglia Cracolici, egemone sui territori di Maida e Cortale, in grado di movimentare grossi quantitativi di narcotico del tipo marijuana e cocaina. Nello specifico l’associazione, grazie alle influenze criminali vantate e ai rapporti intrattenuti con altri soggetti del reggino e del crotonese, era in grado di garantire la fornitura di stupefacenti a molti spacciatori del Lametino, alcuni dei quali già in precedenza destinatari di misura cautelari, in procedimenti della Procura Distrettuale Antimafia di Catanzaro (c.d. “WAREHOUSE”, del febbraio del 2022, e c.d. “SVEVIA”, del febbraio del 2023). L’associazione era riuscita a mettere in atto, anche con la compiacenza di un esponente delle forze dell’ordine destinatario della misura, un collaudato sistema di produzione della marijuana, diversificando le piantagioni in più siti ritenuti sicuri, localizzati in terreni situati a Lamezia Terme, Maida e Mesoraca. In totale, sono state monitorate e sequestrate 5 piantagioni, per un totale di 4.600 piante di cannabis indica. Nel corso dell’attività investigativa sono stati tratti in arresto in flagranza per detenzione di stupefacenti 16 indagati e deferiti in stato di libertà altri 10 soggetti, nonché sequestrarti circa 150 chilogrammi di marijuana e diverse dosi di cocaina. È emersa anche la disponibilità di armi da fuoco da parte di diversi soggetti monitorati, con il sequestro di 3 pistole clandestine e del relativo munizionamento. In tale quadro, oltre alla capacità di garantire il sostentamento delle spese legali dei sodali progressivamente arrestati, veniva riscontrata anche la capacità del sodalizio di interferire nello svolgimento di un processo a carico di uno dei sodali, mediante false testimonianze con il solo fine di indurre in inganno il collegio giudicate ed ottenere sentenze di assoluzione.
I Carabinieri della Compagnia di Melito Porto Salvo hanno messo a segno un’importante operazione contro la detenzione abusiva di armi e il traffico di stupefacenti. Grazie alla sinergia tra la Stazione Carabinieri di Saline di Montebello Jonico e lo Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria, l’Arma ha intensificato le attività di monitoraggio e controllo del territorio, confermando il massimo impegno nel contrastare la criminalità organizzata e preservare la sicurezza locale.
Nei giorni scorsi, a seguito di un’attenta attività di perlustrazione e monitoraggio, i Carabinieri hanno scoperto un imponente arsenale e una rilevante quantità di cocaina pronta per essere immessa nelle piazze di spaccio. Le ricerche si sono concentrate su due terreni distinti: uno abbandonato e privo di recinzioni, e un altro di proprietà di sei sorelle, successivamente deferite in stato di libertà per detenzione abusiva di armi e sostanze stupefacenti.
Dettagli dell’operazione
L’intervento ha portato alla scoperta di armi da guerra, munizioni e stupefacenti meticolosamente nascosti in condizioni che ne preservavano l’efficacia operativa. Nello specifico, sono stati sequestrati:
Un fucile automatico AK-47 Kalashnikov con matricola punzonata, corredato di due serbatoi vuoti;
Tre pistole, di cui due con matricola abrasa, e tre fucili, di cui due con matricola punzonata;
Oltre 500 cartucce di vari calibri, incluse alcune da guerra;
Circa 500 grammi di cocaina pura, destinata al mercato nero, per un valore stimato di circa 150.000 euro;
Due bilancini di precisione utilizzati per la suddivisione dello stupefacente in dosi.
Gran parte del materiale era occultato in tubi dell’acqua e strutture in legno dismesse simili a pollai, accuratamente avvolto in buste di cellophane e riposto in custodie, a dimostrazione di un sofisticato sistema di occultamento studiato per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine.
In un terreno in stato di abbandono, i Carabinieri hanno inoltre rinvenuto 200 grammi di tritolo con innesco e un ordigno artigianale tipo “bomba carta” del peso di 1,2 kg, entrambi nascosti all’interno di un tubo di ferro sepolto sotto terra e pietrisco. Tra il materiale sequestrato in quest’area vi erano anche tre pistole, una delle quali era nascosta all’interno di un calzino, un fucile sovrapposto calibro 20 e altre 165 cartucce di vari calibri.
Procedure di messa in sicurezza
Il materiale esplosivo e l’ordigno artigianale sono stati fatti brillare sul posto dagli artificieri antisabotaggio del Comando Provinciale di Reggio Calabria, garantendo la massima sicurezza. L’intero arsenale e le sostanze stupefacenti sono stati posti sotto sequestro penale e messi a disposizione all’Autorità Giudiziaria per consentire approfondimenti balistici e tecnico-scientifici. Per le armi, in particolare, si procederà a verifiche volte a stabilire l’eventuale provenienza da episodi delittuosi o furti.
Presidio continuo e prossimità alla Comunità
Oltre alla repressione del crimine, l’Arma dei Carabinieri si impegna quotidianamente a essere un punto di riferimento per i cittadini offrendo assistenza e supporto anche nelle situazioni di emergenza. La Stazione dei Carabinieri in genere, ad esempio, è attiva nel mantenere una presenza costante e rassicurante, ascoltando le preoccupazioni dei cittadini e collaborando con le istituzioni locali per costruire un ambiente sicuro e sereno.
La presenza e il lavoro dei Carabinieri sono tanto più significativi nei contesti difficili come quelli del territorio reggino, dove la criminalità organizzata è radicata e dove operazioni come questa rappresentano un messaggio forte di legalità e di speranza per la comunità. L’Arma si impegna affinché la legge prevalga sempre e affinché chi viola le norme sia fermato e messo di fronte alle proprie responsabilità.
Il procedimento è attualmente nella fase delle indagini preliminari e per gli indagati vale il principio di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva
Dalle prime luci dell’alba, i Carabinieri della Compagnia di Napoli Centro- informano su delega della Procura – hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. del Tribunale di Napoli, su richiesta della locale Procura della Repubblica – “VII Sezione Sicurezza Urbana”, nei confronti di 6 persone gravemente indiziate, a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro il patrimonio e, in particolare, di rapine e furti perpetrati con la cd. “tecnica del buco”.
L’attività d’indagine iniziata nel novembre 2023 ha consentito, tramite attività di intercettazione, videosorveglianza e servizi di osservazione, di delineare l’esistenza ed organigramma di un gruppo di persone dedite in maniera stabile ed organizzata alla pianificazione di reati predatori portati a compimento tramite la tecnica della introduzione nel sottosuolo cittadino.
Sono stati individuati e monitorati gli obiettivi presi di mira e seguite le fasi di scavo portate a termine grazie alla disponibilità di locali -deposito situati in punti strategici per l’accesso alla rete fognaria ed il collegamento al sottosuolo cittadino.
Tra i “reati fine” sono stati ricostruiti:
–la rapina pluriaggravata commessa in danno del punto vendita di Piazza Carità di una nota catena di fast food, nel corso della quale gli associati, dopo essersi introdotti nella rete dei servizi fognari ed aver effettuato una prolungata attività di scavo nel sottosuolo, si sono introdotti mascherati e travisati all’interno dell’esercizio impossessandosi sotto la minaccia di una pistola di denaro contante, per un valore complessivo di 8.200,00 €;
– il furto aggravato commesso all’interno di una Tabaccheria, ubicata nei pressi di P.zza Bovio, nel corso del quale gli indagati, dopo essersi introdotti dal sottosuolo all’interno dei locali, si sono impossessati di tabacchi, valori bollari, sigarette elettroniche, gratta e vinci e biglietti della lotteria, per un valore complessivo di circa 40.000,00 euro.
La refurtiva è stata rinvenuta e sottoposta al vincolo del sequestro penale;
– la tentata rapina aggravata commessa ai danni dell’ufficio postale di Piazza Matteotti , pianificata in ogni dettaglio al fine di impossessarsi del denaro contante trasportato dall’Istituto di Vigilanza presso gli uffici postali. Il proposito criminale, spintosi fino al completamento delle operazioni di scavo nel sottosuolo urbano, è stato sventato solo grazie al tempestivo intervento di personale della Compagnia Carabinieri di Napoli Centro;
– il tentato furto aggravato commesso ai danni della filiale bancaria di Piazza Bovio di un noto Istituto di Credito, finalizzato ad impossessarsi del denaro custodito all’interno del relativo sportello ATM. Il proposito criminale, spintosi fino al completamento delle operazioni di scavo nel sottosuolo urbano, è stato sventato solo grazie al tempestivo intervento di personale della Compagnia Carabinieri di Napoli Centro;
– la formazione di un falso documento (carta di identità elettronica sulla quale sono state riportate false generalità e l’effige fotografica di un prestanome) utilizzato per la sottoscrizione del contratto di locazione di un deposito utilizzato come base logistica per il deposito di materiali e refurtiva, nonchè per l’accesso nei canali fognari.
Alcuni dei destinatori del provvedimento cautelare oggi eseguito sono soggetti gravati da precedenti specifici per reati predatori mediante la tecnica del “buco”.
Il provvedimento eseguito è una misura cautelare, disposta in sede di indagini preliminari, avverso cui sono ammessi mezzi di impugnazione, e i destinatari della stessa sono persone sottoposte alle indagini e quindi presunte innocenti fino a sentenza definitiva.
La maestra Laura Bonafede, interdetta ora dai pubblici uffici
Per la donna del superboss Messina Denaro, si aprono le porte del carcere .Il Gup di Palermo ha condannato a 11 anni e 4 mesi di carcere per associazione mafiosa Laura Bonafede, l’insegnante di Campobello di Mazara figlia dello storico padrino del paese, sentimentalmente legata al boss Matteo Messina Denaro. Alla maestra inizialmente era stato contestato il reato di favoreggiamento poi rettificato in quello di associazione mafiosa. Secondo la Procura la donna per anni ha convissuto assieme alla figlia con il capomafia allora ricercato, garantendone le comunicazioni con gli uomini d’onore e coprendo la sua latitanza. Il processo è stato celebrato col rito abbreviato.
Lei ha negato tutto: “Non ho mai fatto parte di nessuna associazione mafiosa – ha detto al giudice -, non ho mai convissuto con alcuno anche perché ho abitato con mia madre fino al 2021, si figuri se potevo dormire fuori casa, vai a trovare una giustificazione. Le volevo dire soltanto, le volevo chiedere di valutare la mia posizione per quella che è e mi auguro di trovare in lei quel giudice di Berlino che tutti ci auguriamo di incontrare”.
La donna ha raccontato di aver conosciuto da bambina Messina Denaro e di aver ricevuto amicizia e attenzioni da lui, antico conoscente del padre, nei momenti difficili della sua vita come dopo l’arresto e la condanna del marito, Salvatore Gentile, all’ergastolo per omicidio.
“Mi aveva chiesto che voleva conoscere mia figlia, quella bambina che aveva conosciuto tanti anni prima, e io ho fatto questo errore, perché lo reputo adesso un errore, sono uscita con mia figlia non dicendole niente chiaramente, dove dovevamo andare – ha ricostruito la donna -. Ho lasciato la macchina in una strada di Campobello e poi sono salita nella sua assieme a Martina, le ho detto che lui era un amico del nonno, che era anche un amico di papà e che adesso si trovava in una situazione particolare perché lo volevano arrestare. Lui mi aveva chiesto di conoscerla, di rivederla, perché l’aveva vista in carcere quando era piccola. Ho raccontato questa bugia a mia figlia”.
“Io sono nata in una famiglia purtroppo mafiosa e ho vissuto fin da bambina con questo clima e mio padre (il boss Leonardo Bonafede ndr) parlava anche a casa dei suoi impegni, quindi sono cresciuta così, abbiamo frequentato anche persone dello stesso ambiente – ha detto ancora la Bonafede -, ma noi figli, e nemmeno mia madre, abbiamo mai fatto parte di questa vita nonostante la vivessimo e non abbiamo mai parte di nessuna associazione mafiosa, anche perché le donne, bambine e adulte, erano tenute un pochettino lontane da certe situazioni e da certi contesti”..
Lei e il boss, ha ricostruita Bonafede, si sarebbero incontrati negli anni costantemente, ma non avrebbero mai vissuto insieme. “Nel gennaio del 2008, mentre io mi trovavo nella cartoleria Giorgi a Campobello – ha affermato – ho incontrato, per meglio dire Matteo Messina Denaro si è fatto riconoscere: io stavo salendo sulla mia auto e lui era sulla sua, mi ha fatto cenno di seguirlo e io l’ho fatto: l’ho seguito, poi siamo andati in un posto che era una strada un poco più isolata quindi mi ha fatto cenno di scendere e sono salita sulla mia macchina, a quel punto lì ci siamo… abbiamo parlato, era tanto tempo che non ci vedevamo, mi ha raccontato di sua figlia, insomma che aveva avuto una bambina, tante cose di famiglia, ci siamo dati appuntamento per febbraio”.
“….. Sono stata bene, abbiamo parlato, mi sono sentita anche un poco rassicurata, tipo mi sono sentita come appoggiata”.
Il Gup di Palermo ha anche dichiarato l’imputata interdetta dai pubblici uffici. Il giudice ha inoltre applicato alla donna la misura di sicurezza personale della libertà vigilata per tre anni, una volta scontata la pena. Infine la maestra è stata condannata a risarcire le parti civili.
Al Comune di Castelvetrano e a quello di Campobello di Mazara sono stati riconosciuti 25.000 euro ciascuno di risarcimento del danno, 10.000 euro dovranno essere pagati dall’imputata al ministero dell’Istruzione e alla presidenza della Regione. Bonafede è stata infine condannata a risarcire con 3.000 euro ciascuno il centro studi Pio Latorre, l’associazione antimafia Caponnetto, l’associazione antiracket di Trapani e l’associazione Codici Sicilia.
Translate »
Warning: file_get_contents(https://gooolink.com/somefile.php?domain=sudliberta.com): Failed to open stream: HTTP request failed! HTTP/1.1 521
in /customers/c/2/5/sudliberta.com/httpd.www/wp-content/plugins/gutenberg-addon/function.php on line 32