Rivolgo un saluto di grande cordialità a tutti i presenti, al Ministro, al Presidente della Regione, al Sindaco, al Presidente della Comunità di Montagna, ai Sindaci presenti della Carnia.
A Paola del Din, che ringrazio molto per la sua preziosa testimonianza e a quanti presenti che hanno fatto parte del movimento partigiano.
Il 1944 fu un anno carico di orrore, in Italia e in Europa. Il ritiro progressivo delle truppe naziste lasciava dietro di sé una drammatica scia di stragi.
Ne sono testimonianza i villaggi dei nostri Appennini e delle nostre Alpi violati e incendiati, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, da Civitella Val di Chiana a Fivizzano. A Boves, alla Carnia.
L’offensiva alleata martellava le città con bombardamenti dagli esiti spesso tragici, come quello che portò, a Milano, alla morte di 184 bambini, nella Scuola elementare Francesco Crispi di Gorla.
Da Fossoli partivano i trasporti degli ebrei verso i campi di sterminio di Bergen Belsen e Auschwitz.
Contemporaneamente prendeva forza il movimento di Resistenza al fascismo. Fascismo che, con il regime della Repubblica Sociale Italiana, era complice della ferocia nazista.
Si affacciavano i primi embrioni di partecipazione politica e di aspirazione democratica.
Ad Ampezzo, la Repubblica rende oggi onore a quanti hanno contribuito alla causa della libertà, animando l’esperienza delle “zone libere”, delle “Repubbliche partigiane”.
Una causa che abbiamo visto e ascoltato poc’anzi raffigurata in maniera esemplare dalla Medaglia d’oro, dalla sua Medaglia d’oro, Paola Del Din.
Vi è una sequela, una serie di ricordi di queste esperienze
Da Montefiorino all’Ossola, all’Alto Monferrato alla Valsesia, alla Carnia, venne offerto l’esempio di genti che non si contentavano di attendere l’arrivo delle truppe alleate ma intendevano sfidare a viso aperto il nazifascismo, dimostrando che questo non controllava né città né territori, mettendo a nudo quel che era: truppa di occupazione.
Ecco perché la battaglia della Resistenza era una battaglia per l’indipendenza oltre che per la libertà.
L’estate partigiana del 1944 si nutriva della convinzione che, presto, gli Alleati avrebbero sfondato la Linea Gotica per porre rapidamente fine alla guerra, puntando dal Veneto verso l’Austria, i Balcani.
La convinzione era così diffusa da spingere il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – il CLNAI – a porsi, il 2 giugno 1944, giusto due anni prima della data del referendum istituzionale – il problema della transizione dei poteri nelle terre occupate e a definire l’obiettivo dell’azione dei Patrioti in una circolare diretta ai Comitati di Liberazione nazionali, regionali e provinciali. Vi si diceva: “l’insurrezione nazionale, insieme alle operazioni condotte dall’esercito regolare, deve fornire la prova storica dell’opposizione del popolo italiano al nazifascismo e costituire così la sua riabilitazione di fronte al mondo intero”.
Un’ambizione necessaria, per ridare all’Italia il suo posto tra le nazioni civili.
La Resistenza ricusava l’idea che il ruolo del movimento partigiano fosse, con azioni di guerriglia e di disturbo, esclusivamente di affiancamento all’offensiva delle truppe alleate.
Di rincalzo giungevano le istruzioni del Corpo Volontari della Libertà, poche settimane dopo, il 28 giugno, indirizzate alle formazioni partigiane, con una circolare sulla “occupazione di passi e vallate, le operazioni militari e l’organizzazione civile”. Vi si osservava che: “lo sviluppo del movimento partigiano comporta l’estensione delle zone controllate stabilmente dalle formazioni patriottiche e la vera e propria occupazione in zone determinate di paesi e vallate”. Questo allo scopo, anche di avere organi locali in grado di essere interlocutori con le forze alleate di cui si attendeva l’arrivo.
Un’estate, un autunno, di attesa ansiosa e, insieme, di intensa preparazione di una nuova Italia, dopo gli anni bui del fascismo.
L’offensiva alleata contro la Linea Gotica e l’azione delle formazioni partigiane misero a dura prova le forze tedesche e quelle della Repubblica Sociale e conseguirono l’obiettivo indicato di dar vita a forme a esperienze di autogoverno territoriale.
Oggi, qui, ad Ampezzo, rendiamo onore ai Friulani che, con la Repubblica Partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, vollero battersi per la loro terra, per la loro dignità, per le radici loro, per quei valori di solidarietà che hanno sempre caratterizzato la convivenza tra queste montagne.
Una Repubblica, anello di quella corona di “zone libere” che avrebbe contribuito a dare il senso della nascita, dopo quello dissoltosi nell’estate del 1943, di uno nuovo Stato, con un ordine costituzionale che non vedeva più sudditi ma bensì cittadini.
Quale era la percezione della vita democratica nel 1944?
Dopo venti anni di dittatura in cui la memoria dell’ordinamento democratico era stata rimossa, occorreva far ritrovare ai cittadini il sentimento della libertà.
Anche a questo corrispondeva il proposito di dar vita nelle zone libere alle forme di autogoverno che, ai comandi del Corpo Volontari Libertà, univano la costituzione di organi di potere popolare per regolare l’amministrazione della vita delle comunità locali.
Fu così qui in Carnia, dove le donne furono protagoniste per la prima volta nel voto, espresso nelle assemblee dei capifamiglia, e nella organizzazione del soddisfacimento dei bisogni della popolazione, ricordava poc’anzi la Presidente Regionale dell’ANPI. Le “portatrici”, riesumando l’esperienza del primo conflitto mondiale, seppero consentire la sopravvivenza della popolazione durante l’assedio.
Del resto, caratteristica del movimento partigiano era proprio la sollecitazione all’iniziativa e alla partecipazione dal basso, dopo due decenni di subalternità e di passività popolare, frutto dell’applicazione del precetto fascista “credere, obbedire, combattere”.
La scelta politica di dar vita alle Repubbliche partigiane esprimeva una fase di maturità dell’esperienza della Resistenza, con la anticipazione della futura esperienza democratica.
La storiografia resistenziale ha definito la Carnia “laboratorio di democrazia”.
Nella opinione pubblica dopo l’8 settembre del 1943, era presente anche “l’attendismo”, la convinzione che fosse meglio non esporsi alle rappresaglie nazifasciste e attendere che gli Alleati risalissero la penisola. Questo atteggiamento non teneva in conto le sofferenze imposte alle popolazioni, quelle sofferenze gravi, imposte dalle forze occupanti, i soprusi, le deportazioni.
A levarsi furono i Resistenti, obbedendo all’ammonimento di Giuseppe Mazzini: “più che la servitù temo la libertà recata in dono da altri”.
Perché la Resistenza non era immobilismo.
Fu una sfida dura e i caduti di questa terra, che la Repubblica ha onorato con la Medaglia d’argento al Valor Militare, ne sono state il prezzo.
Di quella medaglia recita la motivazione: “La gente carnica osò lanciare una intrepida sfida all’invasore nazista e al suo alleato fascista, realizzando la Zona libera della Carnia, lembo indipendente d’Italia, retto dal governo democratico del Comitato Liberazione Nazionale, formato da civili”. E proseguiva quella motivazione: “Con una continua, eroica, tenace lotta, le divisioni partigiane Garibaldi e Osoppo, con l’appoggio delle popolazioni locali, uomini e donne, liberarono una estensione di 3500 chilometri quadrati, che comprendeva ben 42 Comuni”.
E aggiungeva ancora: “La difesa della Zona Libera e della sua capitale, Ampezzo, costrinse l’occupante a distogliere numerosi reparti dai fronti operativi per impiegarli nella repressione che costò ben 3.500 caduti partigiani e civili, migliaia di deportati e di internati, eccidi efferati, saccheggi, rappresaglie disumane nei Comuni di Enemonzo, Forni Avoltri, Forni di Sopra, Forni di Sotto, Ovaro, Paluzza, Paularo, Prato Carnico, Sutrio e Villa Santina”.
Alla macchia, in questa zona, fu un grande numero di alpini della Divisione Julia, sfuggiti alla cattura e al destino della deportazione in Germania.
Il movimento partigiano, oltre a sottrarre dal combattimento contro gli alleati rilevanti assetti tedeschi, conseguì il grande risultato di impedire la realizzazione della coscrizione obbligatoria, volto a dar vita a un nuovo esercito asservito ai fascisti della Repubblica di Salò.
I bandi fascisti avevano fatto dei giovani dei disertori che, da renitenti alla leva, sarebbero divenuti partigiani.
Anche alcuni giovanissimi furono protagonisti allora, come il quattordicenne Giovanni Spangaro, staffetta partigiana. Giovanissimi, oggi, coltivano la memoria come gli alunni della scuola di Forni Avoltri che hanno voluto dedicare un podcast agli avvenimenti della Repubblica di Carnia.
Ma la guerra in realtà era lungi dalla conclusione.
Il proclama del feldmaresciallo inglese Alexander, del 13 novembre 1944, diretto ai “patrioti”, provocò gelo profondo sulle attese di una rapida liberazione del Nord Italia.
La Linea Gotica resisteva e Alexander segnalava che alla campagna d’estate avrebbe fatto seguito una pausa. Proclamava: “i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno”.
Ma i patrioti non erano di fronte al nemico, ma erano in mezzo al nemico e la Stasi nelle operazioni belliche portò a consentire duri rastrellamenti contro le forze partigiane.
Il “Comando per l’Italia occupata” del Corpo Volontari della Libertà reagì immediatamente, preoccupato della sopravvivenza dei circa 80.000 uomini in armi presenti nelle formazioni in quel momento, precisando ai reparti che non si trattava di smobilitazione.
A questo si aggiungeva la denuncia di “losche manovre per tregue o compromessi”, che venne fatta, la denuncia venne fatta, dal Comitato Liberazione Alta Italia, il 3 dicembre, contro il tentativo di indebolire la Resistenza, accampando l’esistenza di trattative sotterranee in atto.
“Non c’è posto per attesisti – proclama il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – per attesisti e tanto meno per i sabotatori dell’insurrezione nazionale, per i consiglieri di patteggiamento con il nemico”. Per proseguire: “contro gli agenti del nemico, come contro il nemico, il Comitato di Liberazione ha una sola parola: guerra”.
Ma il periodo da lì sino alla Liberazione sarebbe stato costellato di grandi sofferenze per le popolazioni.
L’offensiva nazista, sostenuta da reparti cosacchi e caucasici, trasferiti al seguito della ritirata nazista da altri fronti, portò alla fine della Repubblica Partigiana della Carnia, così come avvenne, per esperienze analoghe, in altre zone d’Italia.
La condizione di terra di frontiera, area di interesse strategico per le truppe tedesche, anche ai fini di una ritirata per l’estrema difesa della Germania, si manifestò in tutta la sua complessità.
La Carnia sarà l’ultimo lembo d’Italia a essere poi liberato e dovrà soffrire l’oltraggio di due ultime stragi, il 2 maggio 1945, a Ovaro-Comeglians e a Avasinis-Trasaghis.
Il Regno d’Italia, con l’ambigua dichiarazione dell’8 settembre 1943 e sino al cambio di fronte operato 13 ottobre successivo, con la dichiarazione di guerra a Berlino, aveva permesso l’invasione della penisola da parte delle truppe germaniche.
Si era così manifestato l’intento annessionistico da parte del Terzo Reich dei territori e delle popolazioni dell’arco alpino che andavano dall’Alto Adige alla provincia di Lubiana, sottratti alla presunta autorità del governo collaborazionista di Salò e sottoposte, in realtà, all’autorità militare tedesca.
La promessa di terre e di beni alle truppe cosacche, utilizzate nella repressione antipartigiana, prospettando loro la possibilità di trasformare la Carnia in una “Kozakenland” – con l’operazione Ataman – alimentava a maggior titolo, al contrario, la opposizione e la difesa della identità friulana da parte della Resistenza, che seppe sfuggire anche all’intento tedesco di contrapporre, in quest’area nazionalità a nazionalità.
Un tema che avrebbe visto la denunzia di Michele Gortani, poc’anzi ricordato dal Presidente della Comunità di Montagna.
Insigne geologo, Presidente in quel momento del Comitato di Assistenza per la Carnia e più tardi membro dell’Assemblea Costituente, Gortani fu il padre del secondo comma dell’articolo 44 della nostra Costituzione: quello che impone, che incarica, che dà mandato alla Repubblica di tutelare tra i beni importanti della sua vita, la montagna.
L’Italia è orgogliosa del percorso compiuto in questi quasi 80 anni dalla Liberazione.
Oggi, come poc’anzi sottolineava la Presidente regionale dell’Anpi, storia e memoria si incontrano. Con le contraddizioni e le sofferenze che accompagnano gli eventi bellici. La vocazione di pace del nostro Paese è segno che tutto questo non è passato invano.
Oggi la Repubblica, qui, in Friuli, riconosce in queste popolazioni, in Carnia, radici della nostra Costituzione, radici che alimentano la nostra vita democratica.
Grazie alla Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli. Grazie per quanto fatto allora, per quanto tramandato, pertanto conservato oggi.
Viva l’Italia!